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Valle dell'Irno. La Storia messa al centro…

Tra odori di fastfood e vetrine variopinte

Non so quante volte sarò passato davanti a quella fabbrica dismessa, dove mio nonno ci ha lasciato il cuore e mio zio i polmoni, e mai che mi avesse sfiorato un pensiero a stuzzicare la mia curiosità. Finché  ero ragazzo, il viaggio era sempre adombrato dalla  destinazione: puntavo diritto alla meta, e la velocità era un diritto perseguibile per legge. Crescendo, la voglia di correre si è tramutata prima in fretta poi in frenesia: avviluppati nei gomitoli del tempo, siamo  finiti per essere  fili nelle mani di parche che tessono vite da strumentalizzare.  Avrò percorso la statale S.S. 88 milioni di volte e altro non era che strada da percorrere, asfalto per pneumatici. Avrò guadato quel fiume di bitume infinite volte in entrambi i sensi, con occhi fissi e regolati dal  codice stradale, senza mai che storicamente e intimamente avesse avuto un senso.  Filavo: dalle due alle quattro ruote, dai pedali all’acceleratore, i miei piedi srotolavano catrame come pece sui ricordi. I miei ‘arti’ ai comandi di  telai da cui scaturivano trame di presente che strozzavano la memoria. Da ragazzo avevo un alibi: ero proiettato verso il futuro. Ma da adulto e soprattutto da storico il passato era un mio dovere. Eppure mai, all’altezza di quella fabbrica dismessa… mai che la curiosità mi avesse costretto a rallentare e visitare una pagina intessuta di storia. Ma nel dicembre 2016 prima – per i regali di Natale - e nel gennaio del 2017 poi – in occasione dei saldi -, un impulso irrefrenabile mi ha tenuto bloccato per delle ore nelle maglie del traffico: ero curioso di vedere come un opificio intessuto di memoria fosse tornato a nuova vita. C’è qualcosa di contagioso nell’aria che ci spinge a curiosare. Che stimola il nostro interesse. Che ci costringe a fare di tutto pur di appagarlo. Mentre altre realtà si estinguono sotto la nostra indifferenza. Ed è così che cancelliamo la nostra memoria, la resettiamo. Ed è così che un simbolo di dinamismo declina in marchi di immobilismo: quel retaggio di alacre industrializzazione meridionale dissipato in bulimiche e lise smanie di coatti avventori. Ed è così che la Storia finisce… immolata a un presente senza radici. Ed è così che la Storia è messa al centro…  in un centro commerciale, a raccontarsi attraverso foto sbiadite tra vetrine addobbate e odori di fastfood: laddove si produceva ora si consuma; laddove s’intesseva  la storia, ci si conquistava un posto in Essa, ora si spende il proprio tempo, lo si svende per acquistare vite ai saldi.  Ed è stato allora, che per la prima volta ho sentito la perdita. Ho avvertito di aver perso irrimediabilmente una parte di me, di noi, per lasciare posto alle modernità. Ho avuto la sensazione di aver ripudiato mio nonno e mio zio per sempre e mi è venuta voglia di raccontare la loro vita e la vita di quella fabbrica dismessa a mio figlio, o meglio a me stesso: e in quel momento mi accorgevo di non saper nulla di loro, solo che rappresentavano, che erano  il bianco e nero, la tela e la linea  delle nostre vite variopinte. Del loro vocio, del loro sudore, delle loro tribolazioni, delle loro fatiche,  delle loro malattie e delle loro lotte, di amori e di amicizie, di loro son  rimaste solo   gigantografie cinerine  e  sgranate tra vetrine sgargianti di colori natalizi e di merce in saldo. È nato il futuro dal cadavere del passato. È stato edificato un simulacro di resurrezione o null’altro che un mausoleo?! Sospesi tra un’iniziazione e un requiem, lì fermi nel traffico, sembravamo essere tutti parte di un corteo funebre.

Di Gerardo Magliacano

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