“10 agosto, San Lorenzo e … Sant’Ilario”
Anche quest’anno, come avviene oramai dal 2015, si è svolta a S. Ilario una manifestazione unica nel suo genere.
Non si potrebbe spiegare quello che accade in questo piccolissimo borgo dell’entroterra lucano nella giornata del 10 agosto se prima non si accenni, seppur brevemente, alla magia che avvolge questo posto. Arroccato a circa 900 metri di altitudine, S. Ilario ha una storia che affonda nella notte dei tempi: un miscuglio di leggenda, di reperti storici neolitici (mai opportunamente approfonditi dall’archeologia che segue altri più remunerativi itinerari), di impronte certe lasciate dal passaggio dei Templari, di migrazione di coloni aviglianesi che nel 1700 si insediavano in questi luoghi approfittando certamente delle precedenti antropizzazioni che ne facevano luogo sicuro ma anche ricco di materiale da riutilizzare per la riedificazione.
Insomma, per farla breve e per non allontanarci dal nostro tema principale, basti dire che chi arriva a S. Ilario dice: “mi sembra di essere entrato in un luogo magico, mi sento avvolto da un’atmosfera inspiegabile eppure percepibile”. Il poeta avrebbe detto “intender non la può chi non la prova”.
Ma ritorniamo al 10 agosto.
Ogni anno, in questa data, il maestro d’arte Franco Zaccagnino propone nella pubblica piazza, che è quasi un anfiteatro naturale (per la sovrabbondanza della pietra e per il piano leggermente inclinato), una sua nuova scultura. E fin qui il lettore potrà pensare che non vi è nulla di trascendentale, ma così non è perché innanzitutto la scultura è realizzata unicamente con la canna. Ma non è finita, basti pensare che di questo materiale vengono sfruttate le infinite variazioni cromatiche senza ricorrere mai al pennello o ai colori. E ancora, queste sculture, lungi dall’essere immobili, hanno parti semoventi e quest’anno, per la prima volta, si sono mostrate su di un piedistallo metallico che, vibrando alla semplice brezza serale, proponevano sonorità surreali.
Ogni anno una scultura diversa, ogni anno un tema di grandissima attualità proposto dall’autore e …. dall’opera. Rappresentano sempre, queste sculture, una donna che, a sua volta, racchiude, rappresenta e simboleggia un’epoca, una problematica, uno stile di vita, un dramma, una storia. E così, si sono avvicendate una novella Gioconda, Cleopatra, Ilham (la donna africana che attraversa il mediterraneo su di un barcone), Frida Kalo, Marylin.
Storici dell’arte, critici, professori universitari, giornalisti e uomini delle istituzioni si sono alternati per discutere, approfondire gli argomenti che di volta in volta le opere del maestro Zaccagnino stimolavano ad affrontare.
Ma, ovviamente, non è tutto. E vi chiederete, perché?
La risposta è contenuta nell’ultima parte che caratterizza questi incontri.
Infatti, dopo il dibattito a tema tenuto nella pubblica piazza (che ogni anno si riempie sempre più di un pubblico numeroso ma soprattutto attento!), improvvisamente, dal buio e da un vicolo di S. Ilario, si materializza una ninfa: è Siringa, la ninfa dei castelli di S. Ilario. Il nome, appropriato, dato a questa opera deriva da una leggenda che racconta come la bellissima ninfa Siringa volendo sfuggire al Dio Pan che la voleva far sua venne trasformata in una canna.
Si tratta di un’opera, creata dallo scultore nel 2014, che una volta all’anno esce dal Museo dell’Arte Arundiana, prende forma umana e, accompagnata dal suo autore, solleva il velo che ricopre l’ultima opera nata e, dopo aver ricevuto il saluto del pubblico, scompare di nuovo non senza aver assicurato che ritornerà per rinfocolare una leggenda ma anche per far ritornare realtà quello che era un mito.
Cari lettori, anche questo ultimo scorcio della manifestazione potrà sembrarvi nebuloso. Ma è solo colpa di chi vi voleva avvolgere, da subito, in una atmosfera che vi portasse ad estraniarvi dal mondo circostante e, quindi, non poteva perder tempo nelle prefazioni.
Adesso, invece, che siete anima e corpo nella piazza di S. Ilario, vi mostro, alla vostra destra, una viuzza che scende giù verso la fontana pubblica ed il cimitero e, al cui inizio, fa bella mostra di sé una costruzione di colore scuro abbellita da enormi lastroni di pietra: è il Museo dell’Arte Arundiana, costruito dal nostro artista. L’aggettivo arundiana deriva proprio dal nome latino della canna, arundo.
Creato dal nulla, in una semplice struttura adibita una volta a falegnameria, contiene opere uniche e ineguagliabili.
Franco, profondamente innamorato di S. Ilario, suo luogo di nascita, non vuole assolutamente che le sue opere diventino itineranti, e tanto proprio col fine di fare di questo museo un polo attrattivo che possa riportare il borgo agli antichi fasti o, rimaneggiando le aspettative, almeno ne precluda l’estinzione.
Non vi è visitatore che non resti senza fiato e senza parole. Mi viene in mente, ex multis, quello che scrisse il Direttore Responsabile del progetto europeo per l’invio di una sonda su Marte, il francese Sylvestre Maurice che nell’agosto del 2015, con moglie e 4 figlie, si inerpicò sin quassù per visitare un museo, notato su internet, che lo aveva incuriosito assai. Ebbene, l’illustre astrofisico scrisse sul registro messo a disposizione dei visitatori: “Un grande grazie per questa visita illustratami dallo stesso artista. Tanta finezza e perfezione ad immagine dell’universo! Qui abita il figlio di Pan”. Ed una delle figlie, Clemence, appuntava: “Splendido! Voi donate vita all’arte!”
Lui, gran conoscitore di percorsi stellari, non si è certo perso d’animo per trovare S. Ilario sulla cartina geografica della Basilicata, a voi comuni mortali, curiosi e mai paghi, invece, vi basterà un semplice riscontro su google maps: il 10 agosto, per la manifestazione “Aspettando Siringa” e, durante tutto l’anno, per visitare il museo dell’Arte Arundiana, per godere dell’aria pulita e frizzante della nostra campagna e dei nostri boschi, per gustare l’acqua incontaminata delle nostre fontane, per inoltrarvi nel fresco dei boschi, per ritrovare quel silenzio impagabile che concilia le riflessioni e che, a pochi fortunati, regala addirittura il fruscìo della neve che cade.
Ilario Bochicchio