Valle dell’Irno: parola di pietra, la storia di un Popolo
Cammini distratto e calpesti l’anima della tua gente, la voce del tuo popolo, la sua memoria, e con lo sguardo perso all’orizzonte di un futuro che altri stanno scrivendo. Ci hanno costretto a stare su strade d’asfalto, in parchi fioriti e piazze intimidite da foreste di cemento, dimentichi di viottoli sterrati e di sentieri polverosi, d’incontri di sampietrini, di adunate da muretto, amalgama delle nostre esistenze, su cui la nostra storia è stata incisa. Il suo racconto, ‘o cùnto, intanto, si affievolisce sempre più: e non ci sono più aedi né poeti a tenerlo vivo nella memoria. Ma le pietre ricordano, serbano l’anamnesi e quindi il dna di un popolo, la sua anima. Le pietre ne conservano la storia, la custodiscono e la proteggono da colate d’asfalto e di cemento: nel tufo delle cantine e delle case, quel poco che ancora resiste, nei sampietrini di certi vicoli e nelle pietre di certe corti e spiazzi affondano le nostre comuni radici. E le pietre parlano, raccontano, sussurrano anche se ammutolite dal silenzio assordante di bitume e calcestruzzi. E le pietre sanno di lotte tra coloni e baroni, tra briganti e invasori. Le pietre sanno di alterchi tra comizi e omelie, per poi riconciliarsi quando si trattava di spartirsi il bene-comune. E le pietre sanno di cortei nuziali, di funerali e di processioni. Le pietre sanno di preghiere e imprecazioni, di promesse e d’abiure. Le pietre levigate da lacrime e sudore, da sputi e sterco, da suole chiodate e da zoccoli ferrati… esse lo sanno: le pietre custodiscono l’idioma dei padri, la lingua degli avi, mentre ora scimmiottiamo un coatto linguaggio acquisito, cui condanneremo i posteri. Mentre le pietre ancora ti chiedono: “‘e chi si figlio?”, “a chi appartien’?” E allora, parafrasando il titolo di un’opera di Carlo Levi, potremmo dire che ‘le pietre sono parole’, sono storie, tracce e testimonianze di ciò che siamo, ma solo per chi sa ascoltare con gli occhi. Parole che serbano il segreto dell’essere. Se ancora c’è concessa una possibilità di essere una comunità fertile e felice, “Felix” come la regione cui apparteniamo, quella è da ricercarsi nella memoria, in quella dei sassi, del tufo, dei sampietrini, dei basolati, delle pietre, perché nella loro memoria è custodita la premessa di essere immortali, di eternare la nostra sorte da scriversi e concedere un futuro alle generazioni in attesa della loro occasione storica. Ci siamo accontentati di vivere, rinunciando all’essere, alla nostra autenticità: abbiamo scelto la vita all’immortalità. Milan Kundera, proprio a proposito di Immortalità, scriveva “Vivere: nel vivere non c'è alcuna felicità. Vivere: portare il proprio io dolente per il mondo. Ma essere, essere è felicità. Essere: trasformarsi in una fontana, in una vasca di pietra”, essere questa pietra, ultima testimone del nostro percorso evolutivo: genesi e civilizzazione di un popolo, cui non venga estorto il diritto, di essere imperituro come un’antica polis. In fondo, come scriveva Mazzini, “Le imposture e le corruttele passano, come passano le tirannidi [e le infime amministrazioni]: Dio resta, come resta il Popolo, immagine di Dio sulla terra. […] il Popolo attraverso schiavitù, patimenti e miserie, conquista a grado a grado coscienza, forza, emancipazione”, e tutto questo le pietre lo sanno, ricordano e incessantemente ce lo raccontano a noi poveri ciechi e sordi, rinchiusi come un gregge da pascolo in un misero presente senza memoria e senza prospettive. Un gregge ridotto a brucare in parchi all’aperto, sempre più spesso branco pronto a scannarsi in steppe virtuali o banchi di molluschi intrappolati nella rete. Ma le pietre ci rammentano che siamo una comunità, che, alla stregua di Gaber, sa che “libertà è partecipazione”. E il tufo rievoca quel senso di appartenenza che “resta come il nome santo di Dio”. E ancora i sampietrini ci ricordano che siamo i discendenti di una stirpe che ha scritto la storia di questa Valle: Noi siamo il Popolo che resta.
Quindi, Tu, Popolo che resti, “non cercare di splendere come la giada, ma sii semplice [immortale] come la pietra”, parola di Lao Tzu, parola di pietra.
Gerardo Magliacano