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L’Europa, il lavoro e la Scuola italiana

L’avvento della scuola dell’autonomia, nel lontano 1999, ha posto la parola fine all’autoreferenzialità dell’istruzione e della formazione, tipica della scuola italiana, attribuendo maggiore centralità al contesto su cui quest’ultima agisce e da cui è agita.

Una scuola che si autoregola, del resto, è più prossima all’idea di un organismo vivente che accresce le sue funzioni ed evolve nel tempo, incrementando la sua complessità, intesa come aumento di relazioni e di informazioni , sia rivolte all’interno che all’esterno.

Una simile scuola smette di essere un corpo autosufficiente, in sé compiuto, un sistema isolato; e diviene man mano, in senso termodinamico, prima chiuso, poi aperto: si genera, cioè, un flusso di azioni in uscita, verso l’esterno, ed uno in entrata, verso l’interno. Ed ecco definito il rapporto tanto proclamato, problematico, ma ricco di occasioni, con il territorio; con l’implicazione stretta che un territorio “ricco” rende ricca la scuola; una scuola “ricca” rende ricco il territorio.

I critici dell’Autonomia scolastica misero in risalto, rovesciandolo, proprio questo nesso, facendo notare che un territorio povero, come il nostro,  avrebbe reso povera – o, meno ricca - anche la scuola.

Poiché il tema dell’Autonomia scolastica non solo era caro a svariati soggetti sociali e culturali italiani, dalla Confindustria ai Sindacati, ma  era soprattutto sostenuto in diversi ambienti europei, fu l’Europa che, per scongiurare il pericolo sopra indicato, si fece carico del sostegno “energetico” – in senso lato -delle aree più svantaggiate d’Europa, come le Regioni meridionali italiane, a partire dalla nostra Campania, classificate come Obiettivo 1.   

In questa ottica nacque il PON (Programma Operativo Nazionale) Scuola, che, nei settenni 2000-06 e 2007-13, ha cercato di sopperire alla relativa povertà dei nostri territori, arricchendo le scuole meridionali con risorse umane – esperti di ogni disciplina – strumentali – dotazioni informatiche e laboratori scientifici – finanziarie – corsi di formazione di allievi, docenti, personale ATA ed adulti; azioni per ridurre la dispersione scolastica; stage per l’alternanza scuola lavoro.

Dopo il primo settennio caratterizzato da una pluralità poco coordinata di Obiettivi ed Azioni, in cui i diversi corsi si sovrapponevano, magari si sommavano, ma mai si sostenevano l’un l’altro, il secondo – 2007-2013 – ha visto l’introduzione della necessità di un  Piano integrato d’Istituto in cui le diverse azioni, dopo una puntuale diagnosi dei bisogni di istituto,  fossero armonizzate e la varietà di strumenti si fondessero in una unica vera e propria sinfonia di interventi.

L’idea di integrazione che si è imposta, anche nel contesto di molte scuole irpine, è stata rappresentata dalla formazione integrata scuola/lavoro, con l’esplicita finalità di tenere insieme, intero, il curriculare e l’extracurriculare, esaltando il primo con il secondo e viceversa: in pratica, lo studio disciplinare è stato concepito come essenziale prerequisito per affrontare con consapevolezza la realtà quotidiana, anche in un contesto lavorativo e professionale.

La formazione integrata scuola/lavoro, a nostro avviso, rappresenta il massimo sforzo ideativo ed operativo teso a creare relazioni, non solo all’interno della dimensione didattica – contenuti, metodi, strumenti operativi -, ma anche tra tutta la comunità scolastica – allievi, docenti, ATA, genitori – gli stakeholders e le aziende coinvolte: armonizzare tutte queste voci plurali è davvero un obiettivo non da poco di cui, oltre a tutti gli aspetti positivi, intendiamo dire, qui, anche alcuni limiti teorici ed operativi.

Date queste premesse teoriche, si comprende bene perché la Scuola di Calitri, che mi è dato dirigere,  abbia immediatamente aderito ai vari Bandi PON e POR Campania indirizzando tutti i nostri sforzi ideativi ed operativi alla realizzazione degli stage in Italia, di cui all’Azione C5, mediante progetti capaci di coinvolgere tutt’e tre i miei indirizzi di studio, dal Liceo artistico all’Istituto Tecnico Economico, al liceo scientifico.

Da come ci hanno raccontato gli allievi e da quanto emerge dai monitoraggi, gli stage conseguono quasi sempre la gran parte degli obiettivi e così, grazie all’Europa, molti dei nostri ragazzi ha potuto mettere alla prova le conoscenze specifiche, acquisite in classe, vivendo la loro prima vera esperienza lavorativa in un contesto altro, così diverso dal nostro, quasi sempre in una delle province italiane più ricche, qual è quella di Rimini: possiamo solo essere grati all’Europa e fieri dei nostri ragazzi e dei loro docenti.

Del resto, la scelta dei C5 ci vede in forte sintonia anche con tutti gli enunciati del Governo che ormai attribuiscono agli stage in aziende il grande compito di integrare competenze ed applicazioni pratiche.

Tutto bene, dunque?

A mio avviso no e, all’inizio di un nuovo settennio, 2014-2020, sarebbe il caso che l’Europa e noi Scuola ci interrogassimo sulle modalità di realizzazione di questi importanti momenti formativi, nella consapevolezza che il confine tra serietà degli interventi e loro vanificazione è molto incerto e labile.

In questi stage, di cui siamo comunque grati all’Europa, attualmente c’è un sovraccarico di lavoro di rendicontazione, di natura squisitamente burocratica, in cui un mondo di carte rischia di fagocitare il senso stesso del progetto il cui fine resta, invece, la crescita degli alunni, anche in termini di applicazioni didattiche in classe.

Inoltre, essi si risolvono per la gran parte dei fondi, in una banale partita di giro dall’Europa alle agenzie turistiche: su 73.000 euro di ciascun progetto POR Campania, ad esempio, per ogni stage C5 – dedicato a 15 ragazzi - realizzato in altra Regione, ben 56400 euro sono per l’agenzia e di questi 14400 per quattro tutor aziendali e 42000 euro per vitto ed alloggio: questi numeri dovrebbero far riflettere e molto!

Credo che con queste cifre, invece, sarebbe possibile realizzare gli stage in maniera molto più efficace,  sollevando, da un lato, la  Scuola da incombenze non proprie, che spesso causano disagi organizzativi e didattici, e dando sollievo, dall’altro, all’alta disoccupazione intellettuale.

A parità di costi, infatti, sarebbe possibile coinvolgere giovani laureati con lauree in lingue straniere o tecniche, in economia, in  giurisprudenza ed altro similare  che, a livello di Distretto, potrebbero interfacciarsi con le Scuole autorizzate a svolgere i PON – FSE o FESR - e POR sia per rendicontare i singoli progetti e sia, soprattutto,per garantire le attività di tutoraggio: per un corso di tre settimane, di 120 ore, ad un tutor vengono corrisposti 3600 euro, al lordo.

Alla scuola spetterebbero essenzialmente compiti di coordinamento, oltre l’individuazione di un unico docente con funzione di tutor, da sottrarre all’insegnamento, che sia capace, però, di riportare in classe i feedback dell’attività di formazione in azienda.

Del resto, pare che il Ministero voglia garantire lo stage per un tempo maggiore e ciò implicherà necessariamente che i docenti, ora coinvolti in qualità di tutor, dovranno essere sottratti per tanto tempo al loro lavoro quotidiano in classe, penalizzando gli altri allievi irrimediabilmente: la Buona scuola ha bisogno di novità, ma queste necessitano di coraggio. Dunque, coraggio!

Prof Gerardo Vespucci

Dirigente Scolastico

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