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Se la giustizia è un problema …

L’amministrazione della Giustizia è una delle funzioni fondamentali di uno Stato democratico, visto che il suo eventuale cattivo funzionamento pregiudicherebbe, in modo importante, l’intera macchina statuale e, soprattutto, arrecherebbe grave detrimento alla pace sociale, perché inevitabilmente i conflitti fra i cittadini devono trovare una loro giusta ricomposizione in un’aula di tribunale, per evitare che gli stessi possano degenerare in altre sedi non consone. 
La Giustizia civile, in particolare, nel nostro Paese è sempre stata lenta e farraginosa, per cui un procedimento, per arrivare a sentenza definitiva, impiega finanche un decennio: tempi, questi, che evidentemente non sono compatibili con le esigenze dell’economia, dal momento che, nello stesso periodo di tempo, nascono e muoiono migliaia di nuove aziende e l’attesa, troppo lunga per un verdetto inappellabile, può essere così importante, da determinare il fallimento o il destino, comunque, di un’intrapresa commerciale o industriale. 
Anche per questo motivo, gli imprenditori stranieri non vengono ad investire in Italia, perché sanno benissimo che una modalità siffatta di amministrazione della Giustizia può produrre un vulnus determinante nella vita di una società di capitali, che, mettendo in gioco cifre ingenti, ha bisogno di poter contare su una tempistica certa e, soprattutto, coerente con le esigenze del mondo produttivo attuale. 
Pertanto, sarebbe necessario che il Governo metta mano, effettivamente, alla revisione del processo civile e la semplice digitalizzazione dello stesso può rappresentare, in tal senso, una condizione utile, ma di per sé non sufficiente in vista del raggiungimento dell’obiettivo. 
Poi, è evidente che l’altro grande capitolo, inerente all’amministrazione della Giustizia, faccia riferimento al settore penale, che, come da tradizione italiana, acquisisce una dimensione politica, visto che, sin dalla nascita della Repubblica, si sono verificati contrasti molto forti fra il potere Esecutivo e quello Giudiziario, dal momento che l’esercizio della funzione inquirente e di quella giudicante è un fatto delicatissimo in un Paese, come il nostro, nel quale i giudici non dipendono dal potere politico in alcun modo, data l’esistenza di un organismo di auto-governo della Magistratura, rappresentato dal CSM. 
Peraltro, l’esistenza in Parlamento di inquisiti o, come nel caso di Berlusconi e Forza Italia, la presenza di personalità politiche, condannate in via definitiva, poste ai vertici dei rispettivi partiti, non costituiscono un fattore di accelerazione del dialogo fra i due poteri dello Stato, perché ciascuno di essi, legittimamente, teme che l’altro intenda porgli dei freni e che la propria sfera di competenza possa essere ristretta o, ancor peggio, pregiudicata dall’azione di un contro-interesse tanto forte, quanto - a volte - ipertrofico. 
Pertanto, negli ultimi due decenni, ogni tentativo di riforma del Codice Penale è stato contrassegnato dal dubbio circa l’esistenza di un eventuale conflitto di interessi nascosto dietro questa o quella proposta di riforma; d’altronde, sappiamo bene come alcuni interventi legislativi del Parlamento abbiano condizionato l’esito di taluni processi, a cui era – ad esempio – sottoposto Berlusconi, per cui i reati sono stati derubricati o le pene previste sono state nettamente ridimensionate, determinando conseguenze concrete nella dinamica processuale a carico di illustri inquisiti. 
È chiaro, quindi, che non si possa fare la riforma della Giustizia con chi ha in piedi vertenze importanti con diversi tribunali italiani, a meno che taluni non vogliano esporsi al rischio di essere sospettati di aiutare questo o quel parlamentare, messo sotto inchiesta da questa o quella Procura. 
È necessario, allora, che prevalga la saggezza, per cui si devono attendere tempi migliori per mettere mano sia al Codice Penale, che a quello di procedura? 
Il nostro Paese ha conosciuto, nei momenti essenziali della sua storia, eventi tragici, che tuttora sono oggetto di interesse dell’azione di indagine da parte della Magistratura: negli anni ’70 gli attentati terroristici, messi in essere dalla Destra come dall’Estrema Sinistra; negli anni ’80 e ’90 quelli, invece, di matrice mafiosa. Tutti, sia pure in forme diverse, hanno contribuito, in modo decisivo, a scrivere le pagine più importanti del nostro passato recente, perché erano, comunque, volti a destabilizzare l’ordine politico esistente ed a crearne uno nuovo, più consono agli interessi di chi si nascondeva dietro al killer di turno. 
In alcuni casi, pertanto, il compito del giudice e quello dello storico devono procedere di pari passo, anche se i due lavori seguono dinamiche e logiche molto differenti fra loro: forse, sarebbe giusto che, però, la politica consenta ad entrambi – sia agli storici, che ai magistrati – di condurre, serenamente, le proprie attività di ricerca, perché da questa deriva la possibilità stessa che l’Italia – ricostruita, in modo attento, la propria storia – possa ripartire più serenamente e riprendere la strada smarrita del progresso civile ed economico. 
A volte, una buona sentenza o una bella pagina di ricerca storiografica, scritte con serietà e professionalità, possono tornare molto più utili di un disegno riformatore confuso ed, in particolare, privo di un autore/ispiratore che sia trasparente e visibile alla pubblica opinione nazionale. 
Solo così, saremo - finalmente - capaci di uscire dalle secche del dubbio permanente e della delazione incessante, che sono stati il leitmotiv della, seppur breve, storia repubblicana. 


Rosario Pesce

 

 

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