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Dopo gli incendi, “una manciata di more”

    Meno male che c’è l’uomo a rimediare ai danni che fa la Natura. Se non fosse per lui, lei sarebbe monotona e ripetitiva. Ogni stagione, con i suoi scontati colori, si ripete lo stesso scenario che ci obbliga a recitare un medesimo copione: un eterno ritorno, un asino che gira imperituro intorno ad una mola. Ma per fortuna c’è l’uomo a mettere il bastone tra le ruote, a condizionarne il suo ossessivo movimento circolare.  Pertanto, dall’alto del suo estro, dispensa alla Natura una bella macchia di toni autunnali in piena estate; un manto cinereo che sembra una nevicata in pieno agosto. E ancora cielo grigio; nebbia che ti entra in casa; piogge infuocate e aria fumé ad arroventare quelle serate estive, che altrimenti si sarebbero ammantante di abusate brezze marine. Miracoli che solo l’uomo è capace di creare. La natura è davvero banale con i suoi azzurri, i suoi verdi, le sue serate trapunte di stelle, con Selene ed Apollo a rincorrersi nella volta celeste per ridipingere il giorno e la notte d’immutate timbriche, che da milioni di anni hanno caratterizzato lo scenario della ‘bella stagione’. E se ancora oggi può vantare un tale epiteto, di sicuro lo deve all’uomo, alla sua mano, al suo genio, alla sua sensibilità, che arricchisce la sua estiva tavolozza d’inusuali tinte, come il nero carbone, il rosso fiamma e i marroni di boschi arsi. Cassola aveva raccontato in modo poetico di un Taglio del bosco. Noi, invece, oggi, l’abbiamo reso artistico con degli incendi, gli incendi dei boschi.

    Durante quest’estate, mentre ammiravo foreste, pinete, boscaglie e finanche noccioleti ed uliveti, che si trasformavano in opere d’arte grazie al tocco di anonimi imitatori di Alberto Burri, mi è venuta voglia di rileggere il Walden di Thoreau, “ovvero vita nei boschi”. Mentre sfogliavo quelle pagine, il mio sguardo si è soffermato su un passo, obbligandomi a mettere in discussione un po’ di quella 'retorichetta' postata in rete, che appaga o distrae le nostre coscienze; a smascherare quello pseudo-cinismo che caratterizzata la nostra epoca. Thoreau scriveva: «Non sacrifica [l’uomo] a Cerere e al Giove terrestre ma piuttosto all’infernale Plutone. Per avarizia, egoismo e per la supina abitudine, dalla quale nessuno di noi è libero, di considerare la terra [i boschi] come una proprietà o come mezzo per acquistarsi soprattutto una proprietà, noi deformiamo il paesaggio e degradiamo l’agricoltura, e [l’uomo] vive una vita meschinissima. Egli conosce la natura da ladro.» E ancora, si legge in questa “Vita nei boschi” che non si può avere «nessun rispetto […] di colui che porterebbe al mercato persino il paesaggio e il suo Dio, potesse ricavarne qualche cosa; che va al mercato per il suo dio, il guadagno, e sul cui podere non c’è nulla che cresce liberamente; i cui campi non danno messe, i cui prati non danno fiori, i cui alberi non producono frutta ma dollari; colui che non ama la bellezza dei suoi frutti, i quali, per lui, sono maturi soltanto quando trasformati in denaro.» Compresi solo allora che l’intervento dell’uomo in seno alla natura non era per un nobile fatto estetico – scusate la mia ingenuità –, non intendeva ingravidare la sua bellezza, donarsi a essa come un fedele amante, ma si trattava di stupro solo per appagare i propri infimi pruriti.  Non si trattava di amanti di Afrodite e Demetra, di Venere e di Cerere, ma solo di seguaci di Plutone. Lo so, qualcuno potrebbe dire: “hai fatto la scoperta dell’acqua calda.” E bene sì, ne prendo atto: tutto avviene, per noi uomini emancipati del Terzo Millennio, e deve avvenire nel nome del dio denaro. Ne prendo atto, ma, alla stregua del filosofo del Walden, per quanto mi riguarda, vi chiedo solo: «Datemi la povertà che gode la vera ricchezza.» E come Thoreau mi accingo a praticare una “Disobbedienza civile”, boicottando almeno per un giorno le derrate di un sistema, immolatosi per satollare l’avido Plutone, il famelico dio denaro. Appagherò, per un giorno almeno, il mio appetito con gli onesti e spontanei frutti che ogni anno il bosco, generosamente, mi garantisce. Memore di un’opera di Ignazio Silone, in fondo basterà “una manciata di more” a saziarmi e per ricordare a Plutone e ai suoi devoti che «vi sarà sempre qualcuno che non venderà la sua anima per un pugno di fave e un pezzo di pecorino».

Gerardo Magliacano

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