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Se prevale l’odio religioso…

I fatti, accaduti ieri a Gerusalemme, ripropongono il problema dell’odio religioso come fattore scatenante delle guerre fra popoli: la questione palestinese, infatti, si alimenta moltissimo della distinzione fra Ebrei e Musulmani, prima ancora che di quella fra Palestinesi ed Israeliani. 
Simbolico è stato il gesto commesso: uccidere quattro rabbini, mentre erano in sinagoga a pregare e ad organizzare i riti della giornata, ha una valenza fortissima, visto che, per la prima volta, dei musulmani si sono spinti così avanti, commettendo un efferato omicidio all’interno di un luogo religioso, che dovrebbe essere tenuto fuori da qualsiasi dinamica violenta. 
Nel corso dei secoli, non a caso, le Chiese, le Sinagoghe, le Moschee hanno rappresentato dei luoghi, su cui vigeva un principio, finanche, esplicito di extra-territorialità, per cui esse non solo sono siti, nei quali l’autorità dello Stato subisce una momentanea sospensione, ma costituiscono per definizione un’oasi felice, dove la presenza dell’Assoluto fa sì che ci sia la cessazione di qualsiasi attività bellica, che può riprendere fuori dall’ambiente sacro. 
Questo divieto è stato, ieri, infranto, per cui due individui, probabilmente sollecitati dall’Isis o, comunque, dall’odio frutto della predicazione dell’integralismo islamico, hanno commesso il più bieco dei reati durante lo svolgimento di una funzione religiosa, quasi a voler addebitare, nel modo più manifesto possibile, alla religione la vera causa della violenza stessa, ben al di là delle mere rivendicazioni territoriali, che pure esistono, da decenni, fra Israeliani e Palestinesi. 
Si è raggiunto, pertanto, il momento più basso della secolare guerra in Terra Santa; peraltro, gli strumenti, con cui sono stati commessi gli omicidi, indicano bene il livello di preparazione militare dei killers, i quali, privi di pistole o fucili, hanno agito nel modo più crudo possibile, facendo ricorso a coltelli ed accette, uccidendo pertanto dei propri simili alla stessa maniera di un animale di allevamento, che si consumerebbe per il pasto. 
Una siffatta violenza non ha più una logica militare, né politica: il Codice di Guerra, infatti, induce al massimo rispetto del nemico, che non può subire torture né gratuite, né ridondanti. 
In tal caso, invece, siamo arrivati alla violenza tipica dello stato di natura, che si realizza quando, generalmente, è caduto qualsiasi freno inibitore e, soprattutto, quando la guerra si confonde con l’aggressività bruta, meramente cieca e priva di qualsiasi sbocco politico-diplomatico. 
Il livello di imbarbarimento, pertanto, non può che preoccupare, anche, noi Europei, che abbiamo la possibilità di assistere agli spettacoli crudi, offerti dall’Isis, attraverso gli schermi televisivi: è ovvio, però, che, nei prossimi mesi, inevitabilmente quella violenza potrà trasferirsi compiutamente nelle strade delle città del vecchio continente, perché è, ormai, venuta meno qualsiasi dinamica morale, che possa sanzionare un atto che determina la morte di un proprio simile. 
Cosa si può fare, allora, per riportare il conflitto arabo-israeliano nei limiti accettabili di un contenzioso diplomatico-politico, evitando gli eccessi, che l’integralismo dell’Isis produce ben oltre i confini della Siria, del Kurdistan e dell’Iraq? 
È necessario che le istituzioni internazionali mettano in essere una significativa azione di pacificazione, volta ad eliminare le ragioni stesse del conflitto, perché, mai come in tal caso, nessuna motivazione strettamente economica o alcuna rivendicazione territoriale possono giustificare un odio così viscerale, che porta all’uccisione di un uomo, mentre sta partecipando ad un rito religioso, per cui l’atto efferato, che si compie, diventa innanzitutto uno sfregio a quell’unica divinità, che dovrebbe accomunare e non dividere chi ha il privilegio di credere in religioni monoteiste, nascenti da un'identica radice culturale. 
Forse, è opportuno che gli organismi internazionali pongano, finalmente, la giusta attenzione al caso palestinese, prima che il principale vulnus della politica estera dell’Europa Occidentale, in terra mediorientale, non produca conseguenze, anche, sui nostri territori. 
Infatti, prendere in considerazione che, in un futuro prossimo, un integralista islamico - emulando il gesto dell’altro giorno dei due musulmani di Gaza - possa ripetere la medesima violenza all’interno di un luogo di culto cristiano non è un’ipotesi del tutto infondata o peregrina. 
Sarà capace l’Europa di estirpare, finalmente, la cattiva pianta dell’odio interetnico ed interreligioso? 
La sensazione, dominante e tragica ad un tempo, è che - ormai - sia troppo tardi: pertanto, non si può che agire entro la logica della limitazione del danno, sapendo bene che la delegittimazione della dimensione della spiritualità, ridotta a momento di puro scontro e non di comunione fra diversi, è nata per effetto dell’attività di chi l’ha innalzata al ruolo di motore della vita civile, ben oltre i limiti naturali che, pure, dovrebbero esistere - in modo, auspicabilmente, molto marcato - fra la sfera del laico e quella del religioso. 



Rosario Pesce

 

 

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