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I diritti negati

La società odierna va incontro ad una negazione colossale di diritti in tutti i settori della produzione e del vivere civile: iniziando dal lavoro, si abroga nel nostro Paese l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori nell’indifferenza generalizzata dei protagonisti del mondo produttivo, a partire dai lavoratori stessi, che dovrebbero essere quelli più motivati nel difendere una prerogativa acquisita nel secolo scorso, che consente a molte migliaia di persone di essere certe del posto di lavoro e, soprattutto, permette loro di avere, ancora, un residuale potere contrattuale nel rapporto con il datore, che altrimenti tornerebbe ad essere quello dell’Ottocento e della prima fase dell’industrializzazione.

In politica, si giunge, ormai in via definitiva, alla liquidazione dell’esperienza dei partiti di massa, così come li abbiamo conosciuti nel corso del Novecento, ed - in particolare - si arriva a togliere il diritto di voto agli elettori, obbligati a scegliere unicamente una lista, non avendo più la possibilità di esprimere una preferenza: il tutto avviene con il plauso di settori consistenti della pubblica opinione, che vedono nei partiti un tumore e nel voto di preferenza un inutile pleonasmo, da delegare al Segretario o leader nazionale, che può in loro vece così decidere che, in Parlamento, segga il deputato Tizio piuttosto che Caio per motivazioni, sovente, discutibili ed, ampiamente, censurabili.

Nel mondo del pubblico impiego, da circa dieci anni, non si rinnova alcun contratto e si mette mano all’automatismo degli scatti di carriera in un clima di rassegnazione generalizzata, per cui gli scioperi non solo non vengono più indetti con la frequenza del passato, ma ormai si è persa ogni speranza in una loro eventuale efficacia concreta.

Nella società, dunque, gli spazi di democrazia economica e civile si stanno visibilmente restringendo, a causa di una congiuntura storica, che prevede il rinnovamento ad ogni costo, finanche quando - così facendo - si rischia di gettare, come si dice in gergo, “il bambino con l’acqua sporca”.

Fino agli anni ’70 del secolo scorso, simili manovre, promosse dal potere politico e finanziario, sarebbero state contrastate duramente: oggi, invece, nella migliore delle ipotesi regna l’indifferenza; in molti altri casi, addirittura, c’è il plauso da parte di chi subisce, sulla propria pelle, gli effetti negativi di tali scellerate decisioni, come se il masochismo, individuale e di classe, tendesse a prevalere su qualsiasi forma di dissenso, pur civile e democratica.

Perché si consuma questo triste fenomeno?

Spiegazioni razionali non sono possibili, mentre forse bisognerebbe chiedere un consulto ad uno psichiatra, per indagare meglio l’animo umano e tentare di capire perché l’attuale strategia, tesa ad eliminare in Italia diritti acquisiti da decenni, avvenga grazie ad un consenso diffuso, tanto più ad opera di chi dovrebbe opporvisi almeno in linea di principio, se non concretamente, attraverso una concertata azione di critica e promozione di modelli sociali alternativi.

Il prezzo più alto, peraltro, non lo pagheranno gli adulti odierni, ma i giovani che, ora, si stanno affacciando alla vita e al mondo del lavoro: avranno stipendi sempre più bassi e con minore potere d’acquisto reale; non potranno godere dei benefici pensionistici, ma dovranno pagare un fondo pensione privato; inoltre, il contratto a tempo indeterminato sarà per loro una chimera, visto che la precarizzazione selvaggia prenderà il posto delle garanzie che, progressivamente, vengono rimosse per favorire la grande impresa ed, in particolare, il mondo della finanza che, sempre più incisivamente, decide le sorti dei grandi gruppi industriali e, quindi, degli Stati nazionali che, con lo strumento della legislazione, possono contribuire a spostare milioni di euro o di dollari da una parte all’altra di un settore produttivo o finanziario.

Le persone sono tutte sopite?

La narcosi generalizzata a cosa è dovuta?

Forse, la colpa va addebitata ai media, che raccontano delle sorti progressive del processo riformatore in atto, che – a dire il vero – andrebbe contrassegnato come “contro-riformatore”, dato che le riforme – quelle autentiche del XX secolo – ampliavano e non riducevano lo spazio della democrazia partecipata e dei diritti civili.

Tant’è che, in Italia, le speranze di un’inversione di tendenza vengono rassegnate nelle mani di un noto imprenditore, Della Valle, che è stato - bontà sua - l’unico a disvelare l’inganno in modo estremamente lucido, chiamando le cose con il loro giusto nome.

Finanche questa è una distorsione, che non trova alcuna spiegazione razionale: un grande imprenditore può rappresentare gli interessi della (ex)classe media e dei ceti più deboli, che i suoi colleghi stanno massacrando, dettando l’agenda programmatica al Governo, che, a sua volta, esegue pedissequamente i diktat di origine confindustriale e bancaria?

Forse, il mondo è cambiato e, nella dialettica odierna fra gruppi sociali ed economici, le categorie del passato non riescono a pieno a chiarire le ragioni e le istanze più remote, ma ad un tempo più autentiche: dovremo rifondare la filosofia ed il pensiero sociologico e politico per cominciare a capire qualcosa?

 

 

Rosario Pesce

 

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