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La fine della razza padrona

Le dimissioni di Montezemolo dalla Ferrari segnano la fine di quella che Enzo Biagi ebbe a definire la “razza padrona”, riferendosi all’Avvocato Agnelli e ad altri protagonisti del capitalismo italiano degli anni ’70 del secolo scorso. 
Infatti, nel nostro Paese, è sempre esistita una classe dirigente che, nel settore imprenditoriale, vantava due grandi qualità: i natali aristocratici e, soprattutto, la capacità di gestire direttamente le aziende, per cui, anche quando venivano assunti amministratori delegati e/o direttori generali, questi erano meramente gli esecutori materiali degli indirizzi impartiti dai proprietari, che sciorinavano una grandissima competenza nei vari settori, nei quali il loro ingegno si misurava. 
L’esempio dello stesso Avvocato Agnelli è stato illuminante, dato che egli non ha mai delegato a terzi la gestione integrale degli affari di famiglia, ma è intervenuto sempre con il proprio spirito critico provebiale sia quando si trattava di auto, che di giornali o calciatori. 
Montezemolo, orbene, è l’ultimo discendente di una siffatta dinastia, visto che egli, nel corso della sua carriera più che ventennale in Ferrari, non solo ha rappresentato gli interessi della famiglia azionista di riferimento, ma è entrato nella gestione - agonistica e commerciale - dell’azienda riversando a pieno il suo entusiasmo per un’attività, che ha contribuito a formarlo, in modo decisivo, sia nel ruolo del manager che in quello di vertice sportivo di un marchio famoso e, forse, unico al mondo. 
La sua defenestrazione odierna, decisa già da qualche tempo da Sergio Marchionne, probabilmente all’indomani della fusione della Fiat con la Chrysler ed all’immediata vigilia della quotazione del nuovo gruppo a Wall Street, chiude dunque una stagione importante dell’economia nostrana, apertasi subito dopo l’Unità, quando da Torino si sviluppò un modello di capitalismo familiare, che ha retto le sorti imprenditoriali del Paese per l’intero XX secolo, dimostrandosi però desueto agli inizi del Duemila, allorquando il clan Agnelli, dopo la morte dell’Avvocato e la scomparsa prematura degli eredi naturali, ha dovuto affidarsi ciecamente ad un amministratore delegato – lo stesso Marchionne – che ha acquisito, nell’immediato, una forza contrattuale notevole rispetto ai discendenti di Gianni ed Umberto, che nessun altro predecessore aveva avuto, in passato, nel rapporto con i componenti della famiglia azionista. 
Montezemolo, grazie alle sue capacità, è rimasto in sella per molti anni, dal momento che l’esigenza di risanare la Fiat ha tenuto lontano Marchionne dal marchio Ferrari: d’altronde, anche i successi sportivi, conseguiti all’inizio del nuovo secolo, hanno fatto sì che la posizione del Presidente uscente del Cavallino Rampante fosse blindata, almeno fino agli esiti odierni. 
Infatti, dopo la fusione con la Chrysler, la Ferrari è divenuta strategica all’interno delle politiche di espansione commerciale del nuovo trust, vòlte ad aggredire il mercato mondiale e, soprattutto, quello americano, per cui l’a.d. di F.C.A. ha ritenuto opportuno non delegare più a Montezemolo la gestione, sportiva e commerciale, delle attività del marchio più prestigioso dell’intero gruppo automobilistico, assumendone - a partire da oggi - la direzione in prima persona. 
Da un punto di vista emotivo, certo la decisione di Marchionne lascerà strascichi importanti, visto che, ormai, la Ferrari si identificava a pieno con il suo Presidente uscente, così come la Juve o la Fiat, nell’immaginario collettivo degli Italiani, si identificano con l’intera famiglia Agnelli ed, in particolare, con l’Avvocato. 
La conferenza stampa, andata in scena oggi, è stata la plastica rappresentazione della divisione dell’imprenditoria italiana in due fazioni contrapposte: da una parte, Marchionne, espressione di un capitalismo apolide ed estremamente cinico nella valutazione discrezionale di fatti ed interessi, che possono arrecare vantaggi all’azienda capeggiata; dall’altra parte, Montezemolo, invece, rappresentante di un capitalismo italiano molto attento alle proprie radici, culturali ed imprenditoriali, e non scevro da un legame sentimentale con l’azienda e gli uomini diretti per tanti anni, in virtù proprio della forza identitaria sviluppatasi fra il marchio e le persone che, a vario titolo, hanno lavorato per il suo sviluppo, senza soluzione di continuità, nel corso di molti decenni. 
Montezemolo è destinato a capeggiare, nei prossimi mesi, il gruppo Alitalia, dopo l’acquisizione che sarà perfezionata dagli arabi di Etihad; invero, possiamo sospettare che crescerà l’opposizione al modo di fare impresa di Marchionne, dal momento che il sodalizio – anche, di impresa – fra lo stesso Montezemolo e Della Valle costituirà un ulteriore motivo di arricchimento del dibattito interno al capitalismo italiano. 
Non vogliamo prendere posizione in una battaglia fra Titani, ma non possiamo non dire che reputiamo privo di futuro un capitalismo che non si vòlti indietro ad osservare il passato nobile di una tradizione, che va innovata con molto gusto e tanta prudenza. 
Forse, riprendendo la metafora di Tomasi di Lampedusa, per davvero iene e sciacalli hanno preso il posto di gattopardi, tanto aristocratici, quanto tristemente decadenti? 


Rosario Pesce

 

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