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Una questione di Giustizia

Nell’anniversario della morte di Sacco e Vanzetti non possiamo non ricordare un episodio, che ha segnato la storia sia degli Stati Uniti d’America, che del nostro Paese: i due umili artigiani, nostri connazionali, vennero processati e condannati a morte per un omicidio loro addebitato, che essi non avevano commesso; la loro unica colpa era quella, infatti, di essere Italiani in una nazione, come quella americana, che, all’inizio del secolo scorso, aveva ricevuto ingenti flussi migratori provenienti dall’Italia. 
La vicenda di quei due umili Italiani è diventata, come era giusto che fosse, nel corso dei decenni, una leggenda, visto che nel loro sacrificio si identifica un’intera umanità, data la lesione di diritti fondamentali, prodotta da un pregiudizio che può essere, così, cieco da determinare un palese atto di ingiustizia. 
Non sfugge a nessuno che la questione della nazionalità - nell’episodio ricordato - si intrecciava, anche, con quella meramente politica, visto che i nostri due emigranti erano di fede anarchica e l’appartenenza a quel Partito era naturalmente mal vista, in quanto, molto più dello stesso Partito Comunista, veniva considerato il vero nemico del capitalismo ed, in particolare, di determinate strutture istituzionali, democratiche nella facciata, ma sostanzialmente autoritarie nei fatti. 
Quella triste vicenda, invero, non può non suggerirci una riflessione sul presente: ci siamo trasformati, fortunatamente, da Paese di emigranti in area geografica preferita da alcuni flussi migratori, per cui riceviamo sempre più cospicui gruppi di extra-comunitari, che sovente non siamo capaci di accogliere nel modo migliore, perché non abbiamo le strutture ricettive adeguate o perché la criminalità organizzata nostrana, associandosi a quella straniera, cerca di entrare nel business dell’accoglienza, determinando delle distorsioni, che sono sotto gli occhi di tutti. 
Molto spesso, l’arrivo di tanti emigranti sulle noste coste ha causato rigurgiti di razzismo, certo non paragonabili a quelli dell’America degli anni Trenta del secolo scorso, ma comunque altrettanto inquietanti; infatti, ad onta di taluni atteggiamenti - talora - intollerabili da parte di coloro che entrano in Italia, non possiamo non ammettere che, ancora oggi, non abbiamo una cultura pronta al confronto con lo straniero, soprattutto se quest’ultimo ha un diverso colore di pelle o, peggio, crede in un Dio differente dal nostro. 
Gli sforzi, finora fatti, sia dallo Stato che dalla Chiesa, nel tentare di sviluppare una cultura del dialogo con civiltà diverse dalla nostra, stentano a decollare perché, in un momento di crisi, come quello attuale, molti fra noi vedono nell’immigrato un potenziale nemico, che può mettere in discussione il margine residuale di benessere di cui possiamo godere, per effetto dei sacrifici fatti dai nostri nonni e genitori. 
In particolar modo, in alcune aree del Paese, lo straniero diventa merce, visto che la legislazione sull’accoglienza - il famoso decreto “Mare Nostrum” - prevede delle provvigioni importanti per gruppi associativi e di volontariato, che si preoccupano delle prime cure agli immigrati. 
Evidentemente, la mercificazione della vita umana è un fatto che va contro la morale comune, sia essa laica o cristiana: l’immigrato non deve essere mero strumento di arricchimento per pochi, pronti a sfruttare la manodopera straniera e a far lavorare, in condizioni servili, i “nuovi” Italiani, che vengono a vivere speranzosi nell'amata penisola. 
Si crea, così, un circolo vizioso davvero preoccupante: per un verso, essi sono oggetto di atteggiamenti violenti da parte di padroncini, senza alcuno scrupolo, che si formano enormi ricchezze grazie al lavoro in nero condotto dagli extra-comunitari; per altro verso, questi ultimi diventano destinatari di un orientamento manifestamente xenofobo da parte di una platea più ampia di Italiani, che individuano nei migranti coloro che sottraggono loro un illusorio lavoro, che - con tragico sarcasmo possiamo dire - rende libere le persone non diversamente da quello condotto nei campi di concentramento nazisti, come ampiamente dimostrato da reportage ed inchieste, realizzati da grandi testate nazionali, come L’Espresso. 
Pertanto, è giusto che il pensiero vada a Sacco e Vanzetti, perché, se è vero che gli Stati Uniti d’America, in quell’occasione, si macchiarono di una colpa davvero infame, è altrettanto lecito pensare che, oggi, molte altre siano le moderne vittime dell’emigrazione, costrette a lavorare per dodici ore al giorno sotto al sole cocente per una paga irrisoria ed obbligate a vivere in abitazioni, dove mancano le più elementari condizioni igienico-sanitarie. 
Per tal motivo, forse, sarebbe opportuno dare un valore non meramente retorico alla commemorazione di due eroi dei diritti civili, quali furono i nostri emigranti uccisi ingiustamente dalla Giustizia americana: forse, solo così, il Paese potrà fare compiutamente i conti con il proprio passato e, soprattutto, potrà immaginare di concepire un futuro, che appare nebuloso agli italiani odierni, mediamente non più giovani, disoccupati e privi di un’istruzione necessaria per entrare, da protagonisti, nella società e nel mondo del lavoro. 


Rosario Pesce

 

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