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Il fantasma di Ebola

Le malattie endemiche, di origine virale o batterica, che hanno mietuto milioni di vittime nella storia dell’umanità, hanno sempre terrorizzato gli individui, in quanto esse sono, tuttora, avvertite come la rappresentazione plastica dell’impotenza del genere umano rispetto alla Natura, a cui basta la diffusione di un semplice micro-organismo per causare la morte di centinaia di migliaia di persone. 
Quando non esisteva, ancora, una mentalità di tipo scientifico e le spiegazioni, che venivano date ai fenomeni naturali, erano di natura o religiosa o – comunque – irrazionale, in eventi simili veniva vista la presenza del Diavolo, che si divertiva a generare morti e sofferenze per fare un dispetto all’Ordine divino delle cose. 
Oggi, dopo la rivoluzione scientifica ed i grandi progressi fatti nel campo medico, la presenza di malattie, che determinano così tanti lutti, continua a rappresentare un qualcosa di fortemente inquietante: infatti, segna il limite delle conoscenze umane, quel limite che deve essere spostato sempre in avanti, affinché l’Uomo sia in grado di rendersi libero dal bisogno e di allungare, così, la propria vita terrena ed, in particolare, migliorare la qualità della stessa. 
Ebola è la peste del XXI secolo, perché - come la peste - uccide e, soprattutto, non dà tempo al malato di essere cosciente del destino cui va incontro, dal momento che la sopravvivenza è garantita, solo, per pochi giorni dopo l’esplosione del morbo in forma conclamata. 
Di Ebola si parla da, circa, venti anni: si è sempre detto che gli Americani custodissero nei loro laboratori copie del virus, che determina la malattia, allo scopo di studiarlo e di individuare, se possibile, un vaccino per estirparla, come è stata fatto con altri fattori patogeni.
A quanto pare, invece, quegli studi non hanno portato ad alcun risultato concreto, se sono decine di centinaia le persone che, in Africa, continuano a morire, giorno per giorno. 
L’Europa ed il mondo occidentale hanno cominciato a prendere la questione molto sul serio, solamente, dopoché il morbo è arrivato, anche, dalle nostre parti, dato che esso, naturalmente, viaggia insieme alle persone, che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste per tentare di sopravvivere alla fame, che si soffre nel continente africano. 
A maggior ragione, la paura di Ebola si è moltiplicata all’infinito, perché la pubblica opinione mondiale ha la percezione di una malattia che non può essere arrestata, così come non si può impedire a nessun cittadino libero di viaggiare e trasferirsi da una parte all’altra di un continente per le più elementari ragioni di vita. 
Le immagini, che provengono dal continente africano, sono davvero crude: infermieri e medici incappucciati ed attenti a non lasciare alcun centimentro di pelle scoperta, quando si avvicinano ai pazienti, che hanno contratto la malattia; scene che, finora, avevamo avuto modo di vedere, solo, nei film di una certa cinematografia di terzo ordine. 
Oggi, quelle immagini sono diventate familiari attraverso i media ed, in un futuro prossimo, anche sul suolo europeo, potremmo vederle direttamente, perché nessuna parte del globo è al sicuro dall’eventuale diffusione del morbo. 
La guerra batteriologica è, sempre, stata una forma tipica di conduzione dei fatti bellici: non si dimentichi che, ai tempi della scoperta dell’America, molte migliaia di Indios vennero uccisi dagli Spagnoli, perché questi portavano malattie, a cui il sistema immunitario degli indigeni non era avvezzo, per cui i virus fecero molte più vittime del fuoco degli eserciti europei. 
Ora, potremmo venirci a trovare in una situazione analoga, perché il continente africano, tradizionalmente povero a causa degli alti tassi demografici, rischierebbe di subire uno spopolamento fortissimo, qualora la malattia si propagasse e saltasse qualsiasi tentativo di costruzione di un cordone medico-sanitario. 
Cinicamente, visto che sei miliardi di individui sono davvero troppi sulla Terra, perché non esistono risorse sufficienti per tutti, si potrebbe dubitare che qualcuno, nei Palazzi che contano della politica internazionale, non sia troppo infelice per la diffusione del virus: la malattia è uno strumento efficacissimo di selezione della specie e, soprattutto, diventa un utile mezzo per combattere il sovraffollamento, quando questo diventa patologico, come lo è nel caso africano. 
Il cinismo delle autorità politiche internazionali potrebbe accompagnarsi a quello delle aziende farmaceutiche, che hanno l’evidente interesse a far crescere la paura, per poi presentare il vaccino sul mercato e chiedere un prezzo altissimo, quando la fobia avrà colpito l’umanità intera. 
D’altronde, esse già oggi non sono sprovviste di eventuali metodi curativi, dal momento che i due pazienti occidentali, che hanno contratto la malattia, sono stati sottoposti al ciclo di terapie previsto dalla sperimentazione in corso e si presume che essi godranno, comunque, di una vita più lunga rispetto a quanti, come le popolazioni africane, sono condannati a morire dopo pochi giorni dall’esplosione del morbo. 
Sembra di rileggere le pagine di “La morte a Venezia” di Thomas Mann: cento anni dopo la vicenda raccontata dal grande scrittore tedesco, l’Europa torna a combattere contro un male, che proviene da un continente lontano migliaia di chilometri dalle sponde europee. 
Eppure, l’Uomo sembrava onnipotente: invece, si scopre impotente di fronte alla vita di un mero organismo pluricellulare, che può mandare in crisi i sofisticati apparati di intelligence dei più potenti Stati al mondo. 
Vendetta divina per i troppi peccati di superbia? 
Semplice mezzo per eliminare la quota di popolazione eccedente? 
Una mera fatalità, da cui ci auguriamo tutti di non essere interessati? 
Comunque la si pensi, l’Uomo ha intuito che, di fronte a sé, non esistono le “sorti progressive” dell’Idealismo tedesco e che, forse, è saggio tornare all’antico “Carpe diem”, prima che la vita si estingua, non solo per moltissimi disgraziati, ma anche per chi si credeva, a torto, esente dal dolore e dalla malattia. 


Rosario Pesce

 

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