Le criticità di un mondo multietnico
I fatti di questi giorni, che hanno obbligato gli U.S.A. ad intervenire militarmente di nuovo in Iraq, dimostrano come sia sempre più difficile costruire un mondo multietnico, dove due o più comunità, diverse per religione e cultura, possano convivere serenamente e pacificamente.
In quella parte del mondo, dove non c’è più pace, da quando Bush ebbe l’idea malsana di annientare il regime di Hussein, i sunniti hanno intrapreso una vera e propria guerra contro tutti coloro i quali non sono islamici e, naturalmente, il prezzo più salato è stato pagato dai Cristiani, i quali, ai tempi di Saddam, convivevano con gli Islamici, senza alcuna paura di essere vittime dei loro strali integralisti.
Oggi, invece, rispetto a dieci anni fa, la situazione è totalmente mutata: infatti, la scelta scellerata di Obama di favorire la caduta dei regimi, che hanno governato - per decenni - in Africa Settentrionale ed in Medio Oriente, ha creato una condizione ben peggiore di quella preesistente.
Dovunque sono esplosi focolai di integralismo islamico, che nessun Governo autoctono, democratico o pseudo-tale, riesce a tenere a bada, così come, al contrario, efficacemente facevano i dittatori spodestati dagli Americani a partire dal 2011.
Tunisia, Egitto, Libia, Iraq costituiscono esempi chiari del fallimento della strategia statunitense: caduti i precedenti raìs, che avevano il merito di aver laicizzato i loro Stati, evitando che le differenze religiose potessero costituire un grave pericolo per la convivenza civile, sono nati nuovi regimi, alla base dei quali regna uno spirito di rivalsa dell’Islam più estremista contro il Cristianesimo ed il mondo occidentale, accusati di essere filo-sionisti, come ampiamente dimostrato, anche, nel corso della vicenda ultima di Gaza.
I cristiani, residenti in quelle regioni, pertanto, sono stati costretti a nascondersi e a fuggire, in taluni casi, per evitare di subire una condanna a morte da tribunali costituiti da folli jihadisti, animati unicamente da uno spirito integralista, che non dovrebbe esistere più nel XXI secolo.
Il vero dramma, però, è un altro: per effetto dei flussi migratori – che, certo, non possono, né devono essere stoppati – ormai molte migliaia di Musulmani entrano, quotidianamente, in Europa dalla porta principale che, per loro, è rappresentata dal Mediterraneo, per cui, in particolare, l’Italia costituisce il primo approdo dove questi poveri disperati hanno la possibilità di fermarsi, in attesa di essere ricollocati lungo l’intera penisola o di essere trasferiti in altri luoghi del Nord-Europa.
Naturalmente, il nostro Paese deve ospitare questi poveri migranti, che portano con sé il dramma di persecuzioni, che hanno subito nelle terre d’origine, dal momento che, fra loro, molto spesso sono presenti dissidenti politici o, semplicemente, persone che vivevano ai margini della società araba, sgradite dunque alle autorità militari locali, che individuavano in loro un pericolo per la pace sociale.
Arrivano da noi, però, anche individui, che non dovrebbero fare ingresso in Europa: fra gli emigranti, figurano talora potenziali terroristi, pronti a mettersi in moto e a realizzare azioni para-militari, qualora arrivasse loro un ordine da chi, dalle terre d’origine, può minacciarli, perché ha sotto tiro parenti ed amici.
Il pericolo terroristico è, sempre, stato attenuato nel nostro Paese, perché la politica estera, condotta per decenni dai vari Governi, ha posto l’Italia in una posizione di non-inimicizia rispetto al mondo arabo, per cui, contrariamente al Regno Unito, agli U.S.A. e alla Francia, non siamo mai apparsi come nemici dell’Islam, almeno di quello più moderato.
Oggi, la situazione, però, sta cambiando assai rapidamente, sia perché l’Italia, nello scacchiere internazionale, si è ricollocata, scegliendo ad esempio di stare più vicina ad Israele piuttosto che alla Palestina, nel recente conflitto scoppiato nella Striscia di Gaza, sia perché stiamo diventando terra di fortissimi flussi migratori, per cui, in prospettiva, nel prossimo futuro, avremo sul territorio nazionale una presenza di Musulmani molto alta, comparabile a quella attuale della Francia.
Si impone, perciò, sin da adesso, una seria riflessione sulle condizioni di convivenza fra Islamici e Cristiani, tanto più utile quando, nell’arco di un ventennio, i rapporti numerici fra le due comunità, in Italia, non saranno più quelli odierni.
Innanzitutto, il dialogo interreligioso non solo è un’opzione, praticabile sin da ora, ma dovrà diventare una necessità, perché esso costituirà l’unico mezzo pacifico, grazie al quale sarà possibile prevenire ed evitare scontri tumultuosi, che sarebbero in contraddizione con la nostra tradizione di ospitalità, ormai pluri-secolare.
Sarà necessario che la natura laica della Costituzione sia ancor di più enfatizzata, dal momento che nessun progresso potrà essere compiuto, se si dovessero confondere le sfere della politica e del credo religioso, che è giusto - secondo lo spirito illuministico - che rimangano, nettamente, distinte fra loro.
Nasceranno, nei prossimi anni, nelle nostre città interi quartieri abitati esclusivamente da famiglie di cultura araba, per cui sarà opportuno che siffatti spazi non diventino dei ghetti; sarà utile un dialogo continuo fra gli Italiani e quanti rappresentano all’esterno queste comunità, che si formeranno sempre più copiose.
Peraltro, non sfuggirà un dato economico: la presenza degli immigrati sarà necessaria, perché a loro naturalmente saranno affidati i lavori, che gli Italiani non vorranno più svolgere, almeno alle cifre che gli imprenditori riconoscono ai propri dipendenti.
Ciò, già, succede in molte aree del Sud, dove i lavoratori neri vengono utilizzati nel lavoro dei campi in cambio di salari, che sono il segno della schiavitù più che della liberazione dalla fame e dal bisogno materiale.
Pertanto, potrebbe realizzarsi un dato, che sarebbe interessante studiare, anche da un punto di vista sociologico e politologico: mentre gli Italiani, pur stando economicamente sempre peggio, comunque non sono soliti realizzare proteste clamorose e - come è giusto che sia - se protestano, lo fanno nei limiti previsti dalla legge, gli immigrati, invece, una volta insediatisi sul nostro territorio ed entrati a pieno nel sistema produttivo italiano, saranno - in quanto nuovi soggetti destinati allo sfruttamento - i protagonisti di una dialettica sociale che riproporrà, in forme nuove, l’antitesi (vecchia quanto il mondo) fra il “padrone” e lo “schiavo”.
Saranno, perciò, essi i promotori di una crescita economica e civile di un Paese, come il nostro, così assopito, che ha perso finanche l’abitudine alla protesta sociale, sia pure composta e nei limiti della legalità.
Frattanto, però, sarà importante realizzare, inoltre, un’opera di intelligence, per evitare che i “nuovi” Italiani possano, fra loro, nascondere cellule terroristiche, al momento, solo dormienti e, poi, pronte al risveglio, qualora dovesse arrivare un ordine, in tal senso, dall’altra sponda del Mediterraneo.
Sapremo vincere la sfida dell’intercultura?
Saremo in grado di integrarci con chi ci porta un bagaglio di tradizioni e novità, con cui è doverso venire a contatto, per migliorare, così, anche la nostra società, ormai molto vecchia ed improduttiva?
Sapremo realizzare quel sogno, che gli U.S.A. hanno concretizzato nel corso del XIX e del XX secolo, gettando così le basi per essere la terra della “nuova frontiera” per individui di razze e religioni le più diverse fra loro?
Rosario Pesce