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"Mentre il medico..."

La pubblicazione, avvenuta stamani, del dato Istat circa il P.I.L. del nostro Paese, prodotto nell’arco del secondo trimestre dell’anno in corso, ci restituisce una cifra sconfortante, che va ben oltre qualsiasi ipotesi di previsione pessimistica, che potesse essere fatta alla vigilia: infatti, nei mesi compresi fra aprile e giugno, la ricchezza prodotta dal sistema Italia si aggira sulla stima percentuale del -0,2%, per cui, facendo una proiezione sull’intero 2014, se venisse confermato il trend, anche, nella seconda parte dell’anno, il P.I.L. si attesterebbe su un valore, comunque, non maggiore del -0,3%. 
È, questo, un dato che mette in ginocchio la Repubblica, perché dal P.I.L. discendono altri parametri, che definiscono lo stato di salute di un Paese: innanzitutto, ne consegue che il rapporto fra debito e P.I.L. potrà, tra moltissime difficoltà, mantenersi al di sotto della soglia fatidica del 3%, richiesta dalla Commissione europea; quindi, il Governo, per evitare di sforare quel limite virtuoso, imposto dalla burocrazia di Bruxelles, dovà ricorrere ad una manovra di rientro, ancora, più corposa di quella che era, già, prevista. Naturalmente, si può immaginare la difficoltà nel reperire risorse finanziarie in un momento storico in cui l’economia non tira, perché l’imposizione di nuove tasse o l’eliminazione ulteriore di servizi sociali di primaria importanza vanno a ledere famiglie, le cui condizioni sono, già, precarie per l’assenza di lavoro, indotta da un congiuntura economica negativa. 
Per tal via, il Paese rischia, effettivamente, il default finanziario e, cosa ben più grave, andrà incontro ad una lunga crisi che, inizialmente prevista come congiunturale, diventerebbe strutturale, per cui gli Italiani dovrebbero prendere atto, a breve, che il capitalismo nazionale ha perso, in modo irreversibile, la spinta trainante, che ha avuto nel corso dell’intera seconda metà del Novecento, dall’ultimo dopoguerra in poi. 
Non a caso, i parametri economici odierni descrivono una situazione analoga a quella degli anni Settanta, con un elemento di difficoltà ulteriore: allora, esistendo la moneta nazionale, il Governo poteva svalutare la lira e, pur creando inflazione, favoriva la circolazione monetaria e, dunque, l’accesso degli Italiani ai livelli di consumo necessari, almeno, per la sopravvivenza.
Invece, oggi, mancando la sovranità nazionale in materia monetaria, lo Stato italiano non può agire in maniera analoga e, dunque, i nostri concittadini sono condannati ad avere sempre meno soldi in tasca ed i prodotti dell’industria trovano crescente difficoltà ad essere venduti sull’asfittico mercato interno, necessitando perciò di spazi competitivi vergini sui mercati in crescita, come quelli dell’Estremo Oriente o di talune aree del Sud-America. 
Peraltro, una diminuzione del gettito fiscale, indotta dall’abbattimento generalizzato della base imponibile, sottoposta a prelievo, determina una mancanza di fiducia da parte dei mercati finanziari internazionali e, di conseguenza, potrebbe verificarsi ciò che, già, si è consumato nell’estate del 2011, cioè un aumento dello spread e, pertanto, un incremento dei tassi di interesse, che lo Stato deve pagare sul debito, che contrae, quando emette i suoi titoli, acquistati in minore misura dal cittadino comune ed, invece, sempre più presenti nel portafogli di banche e gruppi speculativi, che sono soliti attaccare la finanza degli Stati più in difficoltà, allo scopo di incassare maggiori interessi. 
Evidentemente, come il cane che si morde la coda, in tal modo, si innesca un meccanismo per cui l’indebitamento continuo della finanza pubblica determina un inasprimento fiscale, un impoverimento quindi dei cittadini, i quali diventano sempre più esanimi, visto che qualsiasi incremento del livello di tassazione - già altissimo in Italia e ben al di sopra della media europea - comporterà la loro definitiva uscita dal mercato e, dunque, l’impossibilità di accedere ai livelli, almeno minimi, di consumo, compatibili con le esigenze di un’economia che, solo fino a due decenni fa, era la quinta al mondo. 
E la politica, frattanto, cosa fa? 
Discute, amorevolmente, di riforme costituzionali che, se saranno mai varate dal Parlamento attuale, entreranno in vigore, comunque, nel 2018 o non prima della prossima tornata elettorale, se dovesse verificarsi uno scioglimento anticipato delle Camere. 
Esiste un detto popolare, che mi piace ricordare: “mentre il medico studia, il malato muore”. 
Forse, fuor di metafora, mentre la politica discute di massimi sistemi e forbiti automatismi elettorali, finalizzati a garantire la sopravvivenza a questo o a quel notabile - di Destra o di Sinistra - il Paese non è, già, moribondo o si avvia ad esserlo in tempi brevissimi? 


Rosario Pesce

 

 

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