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Le priorità in materia di istruzione

Le parole di Renzi, in merito al rilancio della Pubblica Istruzione, sono certamente meritevoli di una nostra riflessione, visto che non tutti i Presidenti del Consiglio incaricati, nel discorso di insediamento dinnanzi alle Camere, hanno dato spazio alla scuola, così come ha, invece, fatto il nuovo Premier. 
Egli, però, ha individuato un sol problema, ben noto ai sindaci: l’edilizia. È, invero, necessario un intervento straordinario in quel settore, dato che molte scuole sono ospitate in strutture obiettivamente fatiscenti, al limite del rispetto dello standard minimo di sicurezza. 
Quella, però, delle strutture non è l’unica emergenza: infatti, le risorse economiche a disposizione delle scuole statali sono state, progressivamente, tagliate nel corso degli ultimi anni, in nome delle esigenze di spending review; il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa è stato drasticamente ridimensionato e, solo grazie in gran parte ai fondi europei, è possibile oggi tenere le scuole aperte in orario pomeridiano, così da offrire una chance in più, in particolare, alla folta utenza meritevole di maggiori attenzioni pedagogiche e portatrice di bisogni educativi speciali. 
Da più parti, anche in maniera confusa, quando si parla di riforma dei cicli scolastici, si ipotizzano nel dibattito corrente prospettive tutte tese a ridurre ancora le ore di lezione o, peggio ancora, a diminuire il numero di anni di attività curricolare, che – come è ben noto – in Italia sono tredici, se si considera l’iter formativo dalla prima classe della scuola primaria alla quinta classe della secondaria di II grado. 
Il riferimento, che viene spesso preso in considerazione, è quello europeo: nella gran parte dei Paesi dell’U.E., gli allievi finiscono di frequentare le aule all’età di diciotto anni, ma, in tali realtà, l’obbligo di istruzione ha inizio a cinque anni ovvero, pur iniziando al compimento del sesto anno di vita, come da noi, il sistema scolastico altrove si dimostra più efficace, soprattutto, nel consolidare i rapporti con il mondo del lavoro e della formazione tecnico-superiore, che rappresenta, invece, uno dei vulnus del nostro Paese, dal momento che solo di recente - attraverso prima gli IFTS e, dopo, gli ITS - lo Stato e le Regioni hanno iniziato ad investire risorse, in modo rilevante, in questo importante segmento dell’istruzione post-diploma, alternativo (o, comunque, parallelo) a quello universitario. 
Altro elemento essenziale, che descrive bene il disagio odierno della popolazione italiana, è rappresentato dall’elevata percentuale di abbandoni e dalla conseguente dispersione scolastica, per cui la vera piaga della nostra società è il basso livello di istruzione, che si può riscontrare fra i cittadini di varie fasce d’età: dal quindicenne, che non ottempera all’obbligo d’istruzione, al quarantenne, che risulta sovente essere un N.E.E.T., cioè si colloca fuori sia dai percorsi lavorativi, che di aggiornamento e formazione permanente. 
Quest’ultima triste realtà è, forse, la fotografia migliore della grande difficoltà economica italiana: bassi livelli d’istruzione determinano, inevitabilmente, una condizione di dipendenza socio-psicologica, per cui l’uomo cessa di essere libero e diventa, inesorabilmente, un cliente di questo o di quel potente di turno, sovente malavitoso e colluso con la piccola o grande criminalità organizzata. 
Una volta, l’Italia era il Paese di “santi, poeti e navigatori”: oggi, purtroppo, queste tre categorie sono scomparse quasi del tutto e predominano, sempre più, disoccupati o sottoccupati, che evidenziano un drammatico analfabetismo di ritorno, per cui, se in età scolare hanno appreso a leggere, scrivere e far di conto, essi, a distanza di tempo, hanno ormai disimparato, perdendo il possesso delle competenze di base, fondamentali non solo per l’integrazione nel mondo del lavoro, ma anche per esercitare, in modo pieno, i diritti e le prerogative della cittadinanza attiva. 
Infine, non possiamo certo dimenticare gli insegnanti, i quali non solo, negli ultimi anni, hanno perso potere d’acquisto, a causa dei molteplici e penalizzanti vincoli contrattuali o legislativi, ma soprattutto non vantano più la considerazione sociale che - un tempo, giustamente riconosciuta alla funzione e al loro ruolo nella società - oggi viene sempre più tragicamente vilipesa e mortificata, sia dalle scelte del potere politico, sia dal comune sentire dell’opinione pubblica, condizionata a volte da significative campagne di stampa, orchestrate ad hoc da chi ha interesse a delegittimare l’istruzione pubblica in favore di quella privata. 
Saremmo felici se Renzi, che conosce bene la realtà italiana, nei prossimi mesi - in virtù del suo protagonismo, universalmente riconosciuto - potesse imprimere una svolta alle politiche in materia di istruzione, partendo però dai poteri e dalle competenze del Presidente del Consiglio e non limitandosi a quelle del Sindaco, ruolo – questo – che ha dismesso, varcando la soglia di Palazzo Chigi. 
Ne sarà capace, tenendo conto delle esigue risorse finanziarie possedute - in siffatta contingenza - dallo Stato? 

Rosario Pesce

 

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