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Quanti poveri è necessario condannare alla miseria

[…] affinché si possa produrre un ricco?

“Continuate, mangiapane a tradimento, continuate pure; riducete tutto a cifre, tutte le considerazioni di questo mondo a equazioni di interesse corporale, comprate, vendete, speculate. – Alla fine di tutto ciò, cosa ne ha guadagnato la specie umana?” Almeida Garrett, nel 1843, consegnava al suo secolo questo doveroso interrogativo. In pieno Risorgimento, mentre in Europa s’imponeva l’idea di nazione – l’ideale di patria e il diritto alla sovranità – e si rimarcavano confini, lo scrittore portoghese invitava i popoli a rivalutare la propria appartenenza alla Specie. Un’esortazione, la sua, alla quale, circa un secolo e mezzo dopo, nel 2009, farà eco quella del giovane Vittorio Arrigoni: “Restiamo Umani”. Nel 1854, Garrett prenderà congedo dal suo secolo e da questo mondo senza avere avuto, forse, l’onore di vedersi recapitare una plausibile soluzione al suo quesito, un’equazione logica al problema esposto. Ciò che è invece certo, è che egli non vedrà il mondo calpestato da una società massificata, da un’umanità asservita e automatizzata, in balia di una misera oligarchia.  Garrett, a guisa di un cronista del suo evo, ci rende partecipi del suo dubbio socio-esitenziale: “ci sono  appena una dozzina di uomini ricchi. E io domando agli economisti politici e ai moralisti se hanno già calcolato il numero di individui che è necessario condannare alla miseria, al lavoro sproporzionato, alla corruzione, all’infamia, alla riprovevole ignoranza, all’insopprimibile disgrazia, alla penuria assoluta, affinché si possa produrre un ricco.” Quanti? Di quanta povertà necessita questo sistema capitalistico per mantenersi vivo e vegeto? Quanti poveri servono per produrre un ricco? Prima di azzardare una risposta persuasiva, se un’inferenza è ancora possibile, è giocoforza smascherare il ‘blasfemo’ che profana questo evo viziato dal Capitale, ovvero il povero. Chi è costui che mette a rischio la stabilità della nostra era? Evitando di imbastire cattedratiche argomentazioni, i dizionari ci chiariscono il significato del vocabolo povero, ovvero si tratta di colui «che produce poco». Poco cosa? La domanda, nella sua ingenuità, nasce spontanea per sopperire a una smaliziata risposta: in coerenza con il contesto culturale e socio-economico, che caratterizza questo nostro presente storico, l’aggettivo indefinito si riferisce a ben “poca” ricchezza, “poco” capitale; ma stando a quanto insinuato da Garrett, un povero è necessario per produrre un ricco, il quale si nutre delle altrui miserie. Di sicuro, il sistema imperante, che ha monopolizzato l’epoca moderna, esige molti poveri  per produrre un solo ricco. Forse con meno poveri ci sarebbe più ricchezza per tutti, ma il nostro sistema non può contemplare una tale possibilità, addirittura la scongiura, perché ciò significherebbe una riduzione drastica di ingenti capitali nelle mani di pochi ricchi al fine di garantire un’equa redistribuzione di risorse. Pertanto è necessario sacrificare e ridurre in miseria buona parte dell’umanità per preservare quei pochi custodi del Troppo, che agognano il Tutto. Quei pochi, i ricchi, sono i soli che rientrano nelle grazie della divinità. Ormai, possiamo dire che di umano ci rimane ben poco. E che gli unici profanatori ed eretici, untori e appestanti, barbari e stranieri sono i poveri, i quali rappresentano una fiumana di empi e sacrileghi che minacciano quest’onnivoro sistema plutocratico. Ma queste sono solo delle illazioni. Almeida Garrett, alla fine della sua J’accuse, si persuase che “ogni uomo ricco, facoltoso, costa centinaia – oggi milioni, forse miliardi – di infelici, di miserabili. Dunque la nazione più felice non è la più ricca.” Qual è, allora, quella più felice? A ciascuno la sua! Ognuno la patria che si merita, in quest’epoca di allineati e di ‘dis-obbedienti civili’, che professano sovranità e attivismo da dietro una tastiera, in attesa di qualche ‘like’.  Era il 1965, quando un estremo don Milani, ne L’Obbedienza non è più una virtù, ci consegnava  la sua idea di nazione: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.” E oggi? A quale Patria apparteniamo? In quale mondo abitiamo? All’origine della Specie, ai tempi della Genesi, Dio disse: “Siate fecondi e moltiplicatevi [fino a] diventare un insieme di popoli”. E noi, nel 2019, stiamo ancora recriminando “il diritto di dividere” l’umanità, immemori e incuranti dell’inviolabile dovere di moltiplicarci per divenire un INSIEME di popoli, un Villaggio Globale.

 

Gerardo Magliacano

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