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Dal secolo dei Lumi a quello dei lampioni

Innanzitutto, mi sia concessa una premessa semiseria, quasi filosofico-poetica, per chiedere scusa alle parole. Forse dovrebbe farlo qualcun altro, ma per il rispetto che ho per l’umano idioma lo faccio io, a nome mio e di chiunque voglia associarsi. Una delle più grandi responsabilità, che l’uomo ha nei confronti della natura e di ogni ente del creato, è data dal linguaggio: è un suo privilegio, un suo immenso potere, pertanto, appunto,  una delle sue più grandi responsabilità. Di conseguenza, ogni uso improprio che se ne fa, speculazione e deficienza, è un reato. Scriveva Rilke nelle sue Elegie: “Essere qui è molto, perché sembra che tutto ciò che è qui abbia bisogno di noi […] Di noi, i più fugaci. [de] il viandante [che] dal pendio della sporgenza del monte non porta a valle una mano piena di terra, che per tutti è indicibile, bensì una parola conquistata, pura, la gialla e azzurra genziana. Noi siamo qui forse per dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutta, finestra; al più colonne, torre…ma per dire, capisci, oh, per dire così, come mai le stesse cose capivano d’essere intimamente. […] Qui è il tempo del dicibile, qui la sua patria. Parla e proclama.[…] Terra [mia] non è questo che vuoi: invisibile emergere in noi?” Tutto al mondo ha bisogno di noi, dell’umana favella, per essere una volta e per sempre. Liberarle dall’ineffabile per farle durare oltre la loro finitezza. Ma spesso le rinchiudiamo dentro gabbie linguistiche, le asserviamo, riducendo detto e dicente ad essere moneta in questo misero mercimonio. E così, ciò che rientrava nelle umane responsabilità si traduce in meschino potere, che degrada l’uomo ad essere il carnefice di quanto gli è stato affidato: a volte spietatamente consapevoli, a volte solo per mera ignoranza. Fatto è che, dismesse le nostre responsabilità, finiamo per essere semplicemente parlati da un sistema che ci tratta come fantocci: “è il linguaggio – scriveva Heidegger – che parla, non l’uomo. [E] la pluralità dei significati è ogni volta una pluralità storica. Essa scaturisce dal fatto che noi stessi, nel parlare il linguaggio, siamo intesi dall’essere dell’ente, e cioè interpellati, ogni volta in un modo diverso secondo il destino dell’essere.” A questo punto è facile comprendere che il nostro Paese – forse il mondo – è governato “dalle chiacchiere”  – sosteneva Silone – quando non si tratta di spicciola retorica: "L'Italia produce poco grano – sentenziava Il Profeta-Gassman di Dino Risi – perché è tutta coltivata a retorica". Un paese in perenne propaganda che ha smarrito il senso, anzi la responsabilità del logos. Parole come democrazia, popolo, comunità… “al più” –  direbbe Rilke –  ministro, sindaco… sono tutti lemmi svuotati da un politichese di basso conio. Parole che dovrebbero pesare, rappresentare lo stato di civilizzazione di un paese sono violate e indotte in coatte trappole sintattiche. “Ministro” e “sindaco”, due vocaboli che l’umana coscienziosità ha partorito per strappare se stessa dalla muta bestialità dell’ente per essere: ancora Rilke e poi Heidegger ci suggeriscono di «esser-ci», ovvero l’«esser-qui-ora-insieme» e il prendersene cura. Senza scomodare la filologia né la linguistica, che ci condurrebbero nei meandri dell’etimologia, diciamo semplicemente che “ministro” sta per ‘servitore’ mentre ‘syndaco’ traduce l’impegno di garantire la “giustizia dell’insieme-insieme”, patrocinare il bene comune e non di una parte. Ciò che rende onorevole un ministro, piuttosto che un sindaco, è il mettersi al servizio della collettività, divenire il più minuto dell’insieme, una goccia che non inquini la comunità, anzi!....

     Chiedo venia per il tono retorico: in fondo, sono un (in)degno cittadino del Bel Paese. Una cosa è certa: siamo finiti dai secoli bui, passando per quello dei Lumi, a questo secolo dei lampioni. Capita a volte di sentire qualche amministratore comunale vantarsi di aver portato la “cultura” là dove sussistevano strutture medievali; udire delegati della sovranità popolare parlare di “cultura” senza premunirsi del suo significato; di “Medioevo” come un male debellato con l’illuminazione pubblica. Verrebbe da ridere, ma in questo scorcio storico non riesco che ad essere drammaticamente serio. Mi vergogno di fare questo tipo di precisazione, ma rispetto troppo le parole per ‘sentirle’ spudoratamente oltraggiate. Cultura non è portare la presunzione del mondo nella mia umile terra, ma viceversa: far conoscere l’umiltà della mia terra alla prosopopea del mondo, senza alcuna presunzione. Cultura non è un’improvvisazione jazz o i barocchismi di qualche ‘penna d’aquila’, ma la silente alacrità de “il buon villan – come in-segnò Parini – [con] sul collo recando i sacri arnesi /che prima ritrovàr Cerere e Pale / va col bue lento innanzi al campo”; oppure è “la sonante / officina [che] riapre, e all’opre torna”. Cultura è semplicemente ‘coltivare’, ma purtroppo il mio paese, la mia amata terra “produce poco […] perché è tutta coltivata a retorica.” E il Medioevo, se ancora qualcosa fosse rimasto in ombra, ha avuto l’onore di essere abitato da  servi e cavalieri, non certo da schiavi e da presunti uomini liberi, come è avvenuto in  contraffatte epoche di rinascita. E poi, i secoli bui, se ancora è lecito definirli tali, sono stati illuminati dalla ragione e non dal progresso, da qualche lampione in più, che, inoltre, inquinano pure, mentre la ragione è un seme che bonifica.

    È giocoforza a questo punto ripensare al mito platonico della “Caverna”, agli uomini imprigionati nelle sue viscere, cui viene fatto credere che le ombre proiettate da una folgore artefatta, sulla parate dinanzi a loro, siano l’unica e sola verità. Inevitabile sentirsi tale, in quest’evo in cui una cultura fatta di artificiosi luccichii e sfavillanti coreografie addomestica le nostre coscienze. Forse, come è di moda in questo scorcio storico, sarebbe il caso di scegliere il “male minore”: tra le ombre della Caverna e i lampioni del progresso, prediligere il buio medievale, almeno schietto e naturale, nell’attesa che il lume della Ragione ci venga a risvegliare da quel sonno che – secondo il Goya –  «genera mostri».


Gerardo Magliacano

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