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Quell’intreccio inestricabile…

Le vicende inquietanti, emerse ieri a Roma, per effetto delle indagini condotte dalla Procura della Repubblica, evidenziano, in tutta la loro complessità, fatti che sono di una gravità unica ed inaudita. 
Presupponendo il principio dell’innocenza di un cittadino fino all’ultimo grado di giudizio, previsto dalla nostra Costituzione, non si può non mettere in rilievo il quadro, che viene rimarcato dalle conclusioni della fase istruttoria. 
La città - caput mundi un tempo ed, oggi, capitale d’Italia - sarebbe stata, per molti anni, sotto il controllo di una vera e propria cosca malavitosa, lontana dalle mafie del Sud, ma altrettanto violenta e, soprattutto, radicata all’interno delle istituzioni statuali, a causa delle connivenze con non pochi rappresentanti del potere politico e di quello dirigenziale della Pubblica Amministrazione. 
Una siffatta criminalità, assolutamente autoctona e derivante dal terrorismo nero degli anni ’70, teneva in pugno i gangli vitali del Comune e delle aziende municipalizzate, per cui non ci sarebbe stato appalto, che non venisse diretto secondo una logica di contiguità con gli interessi illegali di chi era a capo dell’associazione a delinquere, appena, smantellata dai giudici. 
La gestione degli immigrati nei Centri di Accoglienza e quella dei rifiuti e della raccolta differenziata, la manutenzione delle strade, erano tutte attività controllate, in modo capillare e minuzioso, da un’organizzazione, che viveva e proliferava grazie al copioso danaro pubblico, di cui si alimentava in forme ipertrofiche, fino a quando non è intervenuta la Magistratura, che ha reciso i legami fra il livello delinquenziale tout court e quello dei colletti bianchi. 
Il degrado della vita pubblica romana, invero, non viene scoperto solo ora, a seguito della chiusura delle indagini della Procura, ma da anni è sotto gli occhi degli Italiani il peggioramento consistente della qualità della vita nella capitale. 
Ad esempio, nel 2013, gli omicidi, commessi nella capitale, sono stati molto più numerosi di quelli compiuti a Napoli o a Palermo, a dimostrazione del fatto che i luoghi comuni, che vogliono le mafie insediate solo nel Mezzogiorno, sono ormai falsi, perché la criminalità - quella cinica e senza alcuno scrupolo - esiste a qualsiasi latitudine. 
Naturalmente, nel caso romano, sorprendono le origini di tali ambienti malavitosi: se, ad esempio, a Milano ed in Lombardia prolifera la mafia di origini calabresi, per cui essa può definirsi un fenomeno d’importazione, quella inerente alla capitale è, invece, un’associazione fatta da Romani, provenienti da diversi ambienti sociali e professionali, congiunti fra loro dall’unico interesse teso ad allungare le mani sui soldi dello Stato, alimentando un circuito di corruzione, che forse non ha eguali in altri capoluoghi di regione, anche perché Roma può contare su una mole di finanziamenti pubblici direttamente proporzionale al suo numero di abitanti e alle problematiche, che può presentare la prima città italiana. 
Ovviamente, non ci lascia sorpresi il livello di compromissione della classe dirigente, sia di quella amministrativa, che di quella politica; da decenni, si dice che la mafia dei colletti bianchi sia molto più pericolosa di quella che, per strada, ruba o commette reati tipici della malavita. 
D’altronde, le due mafie, quella criminale in senso stretto e quella di origini borghesi, sono strettamente connesse, essendo l’una la ragione di vita per l’altra. 
Ma, il fattore più inquietante è, invero, quello che emerge dall’analisi del ceto politico. 
Roma è una città complessa e le vicende della scorsa settimana, riguardanti le manifestazioni di violento odio razziale degli abitanti romani contro gli Africani di Tor Sapienza, ci avevano lasciato il dubbio che, a fomentare la rabbia dei cittadini, fossero dinamiche che, poco o nulla, avevano a che fare con le ragioni, pur legittime, del buon governo e della sana amministrazione cittadina. 
Ora, si viene a scoprire che sia la Destra, che la Sinistra, che nei giorni scorsi avevano attaccato il Sindaco Marino, sono entrambe coinvolte nelle indagini in corso. 
Il trasversalismo di siffatte connivenze (tutte da dimostrare, chiaramente, quando alla fase istruttoria succederà quella processuale stricto sensu) non può che lasciarci l’amaro in bocca, perché immaginare che i rappresentanti consiliari, da noi eletti, possano rispondere a logiche criminali – talora, finanche efferate – non può che allontanare, ulteriormente, la pubblica opinione dalla vita delle istituzioni democratiche, su cui pesa il dubbio dell’esistenza permanente di una catena di malaffare, ben lungi dall’essere strappata. 
Inquieta, piuttosto, il fatto che un rappresentante istituzionale estremamente integro, come il Sindaco Marino, estraneo del tutto a tali vicende, possa essere stato oggetto di attacchi verbalmente molto violenti, sia da parte dei suoi avversari, che dall’interno dello stesso partito di appartenenza, solo perché, nel corso del primo anno di mandato, ha avuto un comportamento assolutamente ligio agli obblighi di legge, dimostrando di non essere contiguo con il crimine, che invece – a quanto pare – dominava incontrastato nelle sale e negli uffici del Comune prima del suo arrivo, stando agli esiti delle indagini della Procura. 
Pertanto, dobbiamo ipotizzare che la piovra, che aveva lanciato i tentacoli sul Comune più importante d’Italia, era pronta a distruggere la credibilità e l’immagine pubblica di una persona perbene, come il Primo Cittadino in carica, solamente perché ha tentato di rimuovere un tumore, forse molto più radicato di quanto egli stesso non potesse prevedere, quando si è insediato al Campidoglio, diciotto mesi fa. 
È, sempre, opportuno esprimere giudizi saggi e moderati, ma non possiamo non evidenziare che, se l’impianto accusatorio dovesse reggere nei futuri tre gradi del giudizio penale, dovremmo rileggere, assai attentamente, la storia del nostro Paese, ormai giudicato in Europa dai partners continentali come il vero centro della corruzione, ai livelli addirittura di molti Stati extra-europei. 
Non possiamo non esimerci dal commentare, infine, l’operato dei partiti, soprattutto di quelli più vicini alla nostra sensibilità: è sacrosanto che il PD, sulla scia di tali fatti, proceda a fare pulizia dei suoi quadri dirigenti locali, che sono stati toccati dall’inchiesta, anche perché, un tempo, il Partito Comunista poteva vantare la sua diversità morale rispetto alle altre formazioni partitiche dell’arco costituzionale ed è, quindi, giusto che chi, più o meno esplicitamente, si richiama a quella nobile tradizione, non metta in essere comportamenti minimamente assimilabili a quanti, invece, avrebbero palesato contiguità, finanche, con coloro che hanno avuto esperienze di partecipazione alla lotta armata, nelle fila dei Nar, o alla criminalità per bande. 
D’altronde, le denunce di Pasolini, risalenti agli anni ’70, dimostravano l’esistenza di un cattivo costume, che è andato dilagando nel corso di questi ultimi quarant’anni, per cui sarebbe giusto riprendere lo spirito di legalità e farne la bandiera autentica della propria diversità - politica e morale - rispetto a chi, invece, non dimostra scrupolo alcuno nell’essere funzionale a progetti criminogeni, che violano le ragioni più elementari del vivere comune. 



Rosario Pesce

 

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