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Alla ricerca dell’industria italiana…

In questo triste momento storico per l’economia e la politica nazionale, si avverte l’assenza in Italia, oltreché dei partiti di un tempo, di un sistema industriale effettivamente moderno ed al passo con i tempi. 
È sotto gli occhi di tutti la deindustrializzazione del Paese, per cui, da quinta potenza al mondo negli anni ’80, oggi siamo molto più indietro nelle classifiche internazionali, essendo stati superati ampiamente da nazioni in via di sviluppo, che, ormai, si preparano, nel prossimo ventennio, a dominare la scena planetaria, dal momento che esse vantano enormi ricchezze in termini di materie prime e possono permettersi una manodopera a costi bassissimi. 
In Italia, il momento più basso della storia industriale si è raggiunto, certamente, qualche mese fa, quando la Fiat ha deciso si spostare la sede legale e fiscale in altre realtà – rispettivamente, olandese ed inglese - visto che le imposte da noi sono più alte rispetto ad altre nazioni. 
Quello delle tasse è un refrain che, sovente, si ripete. 
Gli industriali non sarebbero spinti ad investire, perché il costo del lavoro ed, in particolare, i carichi fiscali sono maggiori che altrove. 
Per tal motivo, il Governo è venuto loro incontro, decidendo di abbattere l’Irap, che, di tutte, è invero l’imposta più iniqua che può colpire il mondo della produzione. 
Detto questo, la classe industriale italiana non merita, però, di essere beatificata, né santificata.
Sappiamo bene come l’Italia e la Germania, nel corso dell’Ottocento, essendo arrivate all’Unità più tardi rispetto ad altri Stati, furono costrette ad agevolare l’industrializzazione attraverso un massiccio aiuto da parte della politica, per cui, nel nostro Paese, dapprima la Destra e poi la Sinistra agevolarono, notevolmente, la nascente industria settentrionale ai danni dell’agricoltura meridionale, determinando l’esplosione della questione sociale, visto che gli operai italiani vivevano in condizioni - economiche e professionali - molto più svantaggiate rispetto a quelle dei loro colleghi inglesi o francesi. 
Nel corso del Novecento, poi, in particolare a cavallo delle due Guerre Mondiali, il regime intervenne in modo non irrilevante per assistere i grandi gruppi, ai quali non solo concedeva il beneficio di cospicue commesse, ma soprattutto li proteggeva dalle rivendicazioni sindacali, dato che uno dei principali compiti della polizia politica fascista era quello di sedare gli animi degli operai, per cui chiunque avesse manifestato uno spirito riottoso, sarebbe passato per nemico della dittatura e, dunque, sarebbe andato incontro alle tristi conseguenze, che pativano tutti coloro che decidevano di non chinare la testa dinnanzi al Duce. 
Negli anni Cinquanta e Sessanta, la DC ha continuato ad assistere i principali gruppi economici italiani, consentendo loro di poter contare su condizioni, ancora, vantaggiose di produzione, che, in qualche modo, vennero messe in discussione negli anni Settanta, quando, per effetto della nascita del movimento operaio più radicale ed estremista, inevitabilmente la legislazione si adeguò ai mutati rapporti di forza fra datore e lavoratori. 
Per tal via, quindi, si è giunti agli anni Ottanta, l’ultimo decennio felice dell’industria italiana, dal momento che gli aiuti da parte dello Stato, nel corso di quel periodo, sono stati ancora possibili, mentre, a partire dal decennio successivo, con l’ingresso italiano nell’Unione e con la nuova legislazione europea, le aziende del Belpaese hanno mostrato la loro debolezza cronica, visto che, finiti gli aiuti della mano pubblica, inevitabilmente è emersa la mancanza di capacità di progettazione da parte dei nostri capitani d’industria, molto impegnati nel realizzare operazioni, a metà fra il politico e l’economico, nei salotti buoni di Mediobanca e scarsamente interessati a creare lavoro e nuove prospettive di guadagno per loro stessi e per l’indotto, che si genera - inevitabilmente - accanto ad una fiorente realtà industriale. 
Oggi, infine, lo scenario nazionale è davvero molto desolante, dato che le industrie si sono trasferite altrove ed i grandi industriali ci hanno lasciato in eredità una progenie, che tende più a fare attività finanziaria, che non economia pura. 
Tutti gli industriali del Paese, infatti, senza l’assistenza dello Stato, non sono capaci di portare avanti un progetto produttivo credibile, per cui molti si sono convertiti ad altre attività, dandosi alla gestione integrata di servizi e dedicando attenzione ad occasioni di guadagno, che originano più dalla distribuzione, che non dalla produzione. 
D’altronde, se il mercato italiano smaltisce prodotti di qualità opinabile e dai prezzi bassi, è ineluttabile che le aree di sviluppo industriale si trasformano in territori a vocazione commerciale o, peggio, destinati ad uno sviluppo intensivo di edilizia civile di dubbia utilità urbanistica. 
Così, l’Italia è arrivata ad essere quella realtà, che noi conosciamo: un Paese che non produce più quasi nulla e che si limita a consumare, quindi, ciò che proviene da mercati stranieri, molto spesso - finanche - lontani da quelli europei. 
E la politica? 
Se l’industria si è dissolta, della politica non vi è rimasta neanche traccia e questa è, certo, l’aggravante peggiore. 
Non ci resta, allora, che auspicare la rinascita di Adriano Olivetti o Aldo Moro? 
Forse, la morte della politica e quella dell’industria sono fenomeni collegati fra loro molto più di quanto non si possa credere: nessuno può dimenticare che Tangentopoli fu l’inizio della fine sia per industriali cinici, che per politici corrotti e, da quel momento in poi, il crinale intrapreso è stato sempre più mortificante per le aspettative sia dei lavoratori, che dei cittadini. 
Forse, una palingenesi consentirà all’industria nazionale di rinascere o siamo, solo, illusi sognatori? 



Rosario Pesce

 

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