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Alla ricerca delle giuste garanzie

Il contenzioso in atto, che vede come protagonisti la CGIL ed il Governo, verte sul tema delicatissimo delle garanzie nel mondo del lavoro subordinato. 
È noto che i lavoratori sono divisi in due grandi categorie: quelli a tempo indeterminato, che, lavorando alle dipendenze della Pubblica Amministrazione o di grande imprese, hanno diritto al reintegro in caso di licenziamento privo di giusta causa, e coloro che, invece, lavorando in aziende con meno di 15 dipendenti, hanno diritto solamente ad un indennizzo, che sostituisce in toto il diritto - altrove riconosciuto - di rientrare nell'ambiente produttivo. 
Il dibattito sull’articolo 18, in queste ultime settimane, ha raggiunto livelli importanti, anche se poco proficui ai fini della soluzione del problema, che inerisce a molte migliaia di lavoratori: appare evidente che l’Unione Europea abbia chiesto al Governo di accelerare i tempi della riforma, nella speranza che il processo riformatore non si impantani nelle secche della contrapposizione con il sindacato, e - ovviamente - Renzi non ha perso tempo nell’apparire solerte, dunque, nel raccogliere le indicazioni provenienti dagli organismi comunitari. 
C’è un fattore che viene preso in particolare considerazione da quanti tifano per l’Esecutivo: essi ritengono giusta la strategia renziana, perché, solo in questo modo, il Dicastero acquisirebbe credibilità agli occhi dell’Europa e si potrebbe, così, attendere con fiducia un’apertura di credito da istituzioni, come quelle continentali, che - per il momento - non credono che il Paese abbia la forza effettiva per uscire dall’impasse finanziario ed economico, in cui si è arrestato. 
A noi sembra, invece, che la vera nota dolente possa essere così sintetizzata: anche in presenza di un processo riformatore, che toglierà ai lavoratori un diritto, che altri non hanno mai avuto, l’economia italiana potrà effettivamente spiccare il volo e, quindi, uscire da una condizione, che la penalizza non poco? 
La risposta, a nostro avviso, è negativa: infatti, qualora pure l’articolo 18 venisse abrogato per tutti i lavoratori dipendenti, ci troveremmo ancora di fronte ad una stagnazione dei processi produttivi, che va avanti, ininterrottamente, dal 2007. 
Siamo - come spiegano alcuni prestigiosi economisti - di fronte alla terza recessione nell’arco di un decennio e, probabilmente, l’ultima fase recessiva è la peggiore, in quanto, nei prossimi mesi, essa si accompagnerà ad una vistosa crisi finanziaria, che imporrà al Governo manovre fatte di lacrime e sangue, idonee per riuscire a mettere in ordine i conti dello Stato. 
La deflazione, poi, è la classica ciliegina sulla torta: se i cittadini hanno sempre meno soldi in tasca, perché hanno un maggiore carico fiscale da onorare, è inevitabile che il processo virtuoso dei consumi non si riavvierà mai, per cui le aziende - con o senza il sistema delle vecchie garanzie per i loro lavoratori - non potranno, mai, tornare a produrre al livello dei regimi di un tempo, per cui il PIL tenderà a ristagnare e, di conseguenza, la crisi si aggraverà ulteriormente per le casse statali, sempre più esangui per effetto della scarsa circolazione monetaria, che induce una base imponibile povera e ristretta. 
In tale contesto, ci appare ideologica non tanto la battaglia della CGIL, che difende uno dei capisaldi dello Statuto del Lavoratori, quanto l’intrapresa politica del Governo, che, avendo incontrato difficoltà nel riformare altri settori, meritevoli di un profondo cambiamento, usa lo scalpello dell’articolo 18 per dimostrare alla pubblica opinione nazionale e a quella europea che il Dicastero non vive solamente di annunci, ma di fatti concreti, indipendentemente poi dalla loro efficacia nel triste contesto attuale. 
È, inoltre, evidente che il nostro giudizio non sia avventato, se si legge con attenzione l’editoriale del Direttore del Corsera, Ferruccio de Bortoli, che - per la prima volta nella sua carriera - ha usato parole di fuoco contro l’Esecutivo in carica, accusando chi lo presiede di cercare un consenso facile, visto che la ricerca della soluzione dei problemi si presenta ben più annosa e, soprattutto, difficilmente individuabile per quanti, saggiamente, ammettono che nessuno Stato europeo ha la forza per uscire da solo dalla crisi, dato che è l’intero continente a decrescere e non questa o quella nazione. 
Noi non possiamo, dal canto nostro, non simpatizzare per i lavoratori, perché ci dispiacerebbe se essi, per l’ennesima volta, pagassero il prezzo della crisi, perdendo un diritto che, a prescindere dalle scelte dei prossimi mesi, è sempre più simbolico e scarsamente efficace. 
Forse, per riavviare l’economia italiana, non sarebbe stato necessario impedire - quando si era, ancora, in tempo - che gruppi industriali importanti lasciassero il Paese, per un mero interesse di natura fiscale? 
Forse, per rilanciare la produzione, non sarebbe opportuno andare alla ricerca dei capitali usciti dall’Italia ed imporre una tassa ben più alta di quella finora vigente, dando il via libera al loro rientro nei confini nazionali? 
Peraltro, ci domandiamo dove sia finita la guerra alla mafia e la conseguente ricerca alle sue enormi ricchezze, visto che il sequestro delle attività e dei beni mafiosi costituirebbe un’importante boccata d’ossigeno per lo Stato, che potrebbe, con quel danaro, finanziare progetti importanti di riqualificazione e riavvio di settori fermi della nostra produzione. 
Nella querelle fra Renzi e la Camusso ci piace stare dalla parte del Paese vero e crediamo giusto non millantare un’aspirazione di buon governo, barattandola con un interesse sociale, purtroppo, troppo debole per avere l’adeguata rappresentanza politica. 
Renzi, infine, capirà che non basta affascinare i burocrati di Bruxelles o il Cancelliere di Berlino con il feticcio del rinnovato Statuto dei Lavoratori per creare immediatamente – ed, anche, in prospettiva – le condizioni del rilancio, tuttora possibile? 
Confidiamo nella capacità di mediazione della dirigenza sindacale, perché altrimenti una battaglia, meramente ideologica, può riaccendere il fuoco della contrapposizione sociale, che comporta molti più danni dell’eventuale, mancata abrogazione di una norma degli anni Settanta del secolo scorso. 


Rosario Pesce

 

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