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Verso un nuovo patto educativo...

La presentazione delle Linee Guida per la riforma della scuola, avvenuta stamani ad opera del Presidente del Consiglio, rappresenta un’utile occasione per affrontare un discorso delicatissimo, come quello inerente al servizio della Pubblica Istruzione, ormai da diversi anni sottoposto a processi riformatori, che ambiscono a rendere la scuola pubblica italiana competitiva con quella degli altri Paesi europei, visto che le indagini internazionali, condotte sugli apprendimenti degli alunni, dimostrano come l’Italia non sia in linea con gli standard delle potenze economiche dell’Est asiatico e dell’Europa più avanzata, per lo più identificabile con l’area settentrionale del vecchio continente. 
Parlare di riforma della scuola non è cosa facile, dal momento che numerosi sono gli aspetti problematici, che meriterebbero una riflessione o un cambio normativo. 
Peraltro, non possiamo non apprezzare la grande prudenza del Premier, il quale ha scelto di non presentare un decreto legge o un disegno di legge già blindati, ma più opportunamente ha presentato, appunto, delle Linee Guida, le quali saranno discusse pubblicamente nei prossimi due mesi, per cui quando, poi, l’Esecutivo presenterà il testo di legge, per il varo da parte delle Camere, esso si sarà arricchito del contributo di tutte quelle componenti - professionali e sociali - che hanno titolo ad avanzare proposte, richieste di emendamenti, suggerimenti utili a migliorare un’ipotesi di riforma sempre perfettibile. 
Inoltre, parlare di scuola pubblica, in tempi di spending review, è ulteriormente problematico, perché qualsiasi proposito – anche, il migliore ed il più onesto – si scontra, inevitabilmente, con le disponibilità finanziarie dello Stato, che non sono illimitate in un momento storico nel quale il deficit cresce rapidamente perché, a causa della crisi economica perdurante dal 2007, la base imponibile degli Italiani è sempre più ristretta e, dunque, vengono meno le risorse per investimenti, finanche, in settori cruciali della vita comunitaria, come possono essere, ad esempio, quelli della Sanità e della Pubblica Istruzione. 
Nonostante tali difficoltà di contesto, non possiamo non apprezzare gli intendimenti di un Governo che - anche, strumentalmente - avrebbe potuto fare a meno di affrontare le spinose tematiche scolastiche, interessandosi di altro, visto che le emergenze, internazionali e nazionali, invero non mancano. 
Ma, veniamo al merito delle questioni, degne di un approfondimento attento. 
La questione centrale, intorno a cui l’intero impianto renziano ruota, è quella lavorativa, visto che la scuola pubblica, oltreché essere un luogo di educazione e formazione, è soprattutto un datore di lavoro per molte centinaia di migliaia di operatori, che vi lavorano a vario titolo. 
Orbene, nel corso dei decenni, è cresciuto il precariato fra i docenti delle scuole di ogni ordine e grado: oggi, nelle cosiddette graduatorie ad esaurimento di livello provinciale, sono presenti quattrocentomila docenti circa, che, muniti almeno di un’abilitazione all’insegnamento, ambiscono legittimamente all’assunzione nei ruoli dello Stato, mentre sono impegnati con contratti a tempo determinato (i più fortunati di loro!) o, peggio ancora, sono per lo più disoccupati, perché, occupando le posizioni di retroguardia nelle suddette graduatorie, non riescono a lavorare, neanche, per un giorno alle dipendenze di un istituto statale. 
È evidente che la risoluzione del problema del precariato, pertanto, costituisca un’emergenza nazionale, dato che l’Unione Europea, attraverso delle sentenze della Corte di Giustizia, ha ammonito lo Stato italiano, perché non ha contrattualizzato a tempo indeterminato tali lavoratori, che, sovente, riescono a conquistare un contratto a t.i. quando sono molto avanti negli anni e, quindi, le loro migliori energie, culturali e professionali, si sono già spente per lo stress di una così lunga attesa. 
Riuscire a sistemare un alto numero di lavoratori non è cosa facile, perché la precedente riforma, varata dal Governo Berlusconi e dal Ministro Gelmini, ha creato la sovrannumerarietà di moltissimi docenti, che hanno perso la cattedra, perché sono state drasticamente ridotte le ore di lezione frontale, in particolare nelle scuole primarie e nella secondaria di secondo grado, dove il monte orario settimanale è sceso - come nell’esempio dei Professionali - da trentasei a trenta o trentadue ore, con evidente perdita di occasioni lavorative per molti professori, che erano già di ruolo. 
Questi docenti, quindi, sono andati ad ingrossare le fila della cosiddetta “D.O.P.”, cioè della dotazione organica provinciale costituita da quegli insegnanti, che, in assenza di classi di riferimento, vengono utilizzati dalle scuole di appartenenza per svolgere ore di lavoro per sostituire i colleghi assenti. 
Siffatti docenti, per effetto della proposta renziana, entrerebbero a far parte di un nuovo tipo di organico - funzionale o di rete - per cui gli insegnanti già di ruolo, in sovrannumero, e quelli assunti a partire dal 1 settembre 2015 entrerebbero a far parte di un organico spalmato su più scuole dello stesso comprensorio e verrebbero utilizzati non solo per sostituire i colleghi assenti, ma anche per svolgere quelle attività aggiuntive (corsi di recupero, attività di sostegno e potenziamento, progetti), che oggi vengono svolti dai loro colleghi curricolari, per cui - essendo, queste, ore di lavoro straordinario rispetto all’ordinario orario di servizio settimanale - esse vengono pagate attingendo le dovute risorse dal Fondo delle singole istituzioni scolastiche. 
Quindi, l’assunzione del nuovo personale ed il riutilizzo del vecchio, secondo le procedure sopra indicate, se per una parte determinano un addebito per l’Erario, perché ovviamente la stipula di contratti a tempo indeterminato comporta dei costi – soprattutto, quando si deve procedere alla cosiddetta “ricostruzione di carriera”, ai fini della definizione della posizione previdenziale del lavoratore – per altro verso, comportano dei risparmi, perché il Fondo, che lo Stato trasferirà alle Istituzioni scolastiche, potrà essere notevolmente ridimensionato o, comunque, utilizzato per altre esigenze. 
È meritorio per il Governo immaginare l’assunzione, nei prossimi anni, di un alto numero di precari, sebbene le cifre, che sono state divulgate dalla stampa, segnino un avanzamento di carriera per molti docenti a fronte di moltissimi altri che, invece, rimarrebbero fuori definitivamente dalla scuola, perdendo anche la residua speranza di poter compiere, nella loro vita, qualche giorno di servizio alle dipendenze delle istituzioni scolastiche pubbliche. 
Inoltre, punto centrale nell’impianto renziano è il merito: ad oggi, non c’è nessun sistema oggettivo di valutazione del lavoro dei docenti, i quali vengono retribuiti sulla base di scatti stipendiali legati, unicamente, all’anzianità di servizio. 
Introdurre la logica meritocratica significa, inevitabilmente, valutare il lavoro dell’insegnante “x”, compararlo a quello dell’insegnante “y”, riconoscendo al migliore un’incentivazione, che rappresenterà l’unico elemento di carriera ai fini economici per il docente, visto che il ruolo, ai fini giuridici, può essere superato solo per transitare in quello della dirigenza. 
Il problema sorge immediatamente: chi valuta il docente? In base a quale griglia oggettiva? Quale sarà il ruolo dei dirigenti nella valutazione dei suoi dipendenti? E quello delle famiglie? Degli alunni? Degli eventuali stakeholders? 
Finora, in verità, sono state condotte diverse sperimentazioni, vòlte a valutare il lavoro delle istituzioni scolastiche, ma si può ben immaginare come qualsiasi sistema adottato possa aprirsi a contestazioni e discussioni di vario tipo, visto che il lavoro del docente è di natura intellettuale e pedagogica e, quindi, diventa difficile fissare dei criteri universali, utili per la definizione della sua qualità, che non si debbano ridurre alla mera misurazione degli apprendimenti dei singoli allievi, diversi da scuola a scuola, da classe a classe, da anno scolastico ad anno scolastico. 
Peraltro, già oggi la partecipazione dei docenti alla vita della scuola è differente: c’è chi si limita al solo svolgimento delle ore di insegnamento frontale e di quelle funzionali allo stesso, come da contratto nazionale di categoria, e c’è chi, invece, svolge ore ulteriori di lavoro, perché è destinatario di incarichi fiduciari o di funzioni strumentali o realizza attività di progetto in orario, chiaramente, extra-curricolare. 
Quindi, esistono livelli dissimili di intensificazione dell’onere lavorativo, a cui corrispondono, come è legittimo, retribuzioni diversificate e prospettive di carriera conseguenti, visto che l’espletamento di incarichi fiduciari o di funzioni strumentali costituisce titolo di servizio in sede di concorso dirigenziale. 
Infine, il dirigente: anche, questa figura meriterebbe una revisione del relativo profilo professionale, perché, essendo diventata centrale a seguito dell’introduzione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, essa deve misurarsi con gli Organi collegiali, introdotti dalla legislazione dei Decreti Delegati nel 1974, cioè trent’anni prima circa rispetto alla nascita del regime autonomistico, che ha riconosciuto al ds la rappresentanza legale dell’i.s.a. ed il rango della dirigenza pubblica, dapprima negato ai vecchi direttori didattici e presidi, che erano funzionari dello Stato, non inquadrati ancora nell’area dirigenziale. 
In tale contesto, è chiaro che, con l’incremento vertiginoso delle responsabilità, siano attribuite ai dirigenti nuove prerogative, tenendo conto della contestuale necessità di riformare organismi di mero indirizzo “politico”, come il Consiglio di Istituto, che interloquiscono con chi - come il ds - detiene il potere di gestione, coordinamento e valorizzazione delle risorse umane all’interno dell’i.s.a., così come recita la legislazione attuale, figlia dei decreti nati subito dopo l’introduzione dell’autonomia funzionale. 
Come si intuisce facilmente, le posizioni dell’Amministrazione e dei sindacati, dopo la presentazione odierna delle Linee Guida, sono destinate a divenire divergenti e ad alimentare un dibattito, che difficilmente potrà essere comprimibile nel corso dei due mesi, previsti dal programma di Renzi, il quale conta, nel prossimo novembre, di poter giungere già ad una compiuta ed organica proposta legislativa, dato che, nella Legge di Stabilità per il 2015, dovranno essere indicate le cifre necessarie per il varo della riforma, sin dal prossimo 1 settembre. 
È giusto, però, che, nel rispetto delle idee di tutti, grazie al contributo delle varie componenti professionali e sindacali, con il dovuto spirito laico, la Scuola pubblica abbia un rilancio deciso ed importante, cosicché il Paese della Montessori e di don Milani possa contare su un sistema dell’istruzione pubblica, finalmente, adeguato ai tempi nuovi ed in grado di competere con quello di altre nazioni, che oggi sono meglio collocate di noi nei risultati dei test di verifica, condotti da autorevoli istituzioni internazionali. 
Il futuro individuale inizia ad essere costruito, seriamente, dagli anni di frequenza scolastica: pertanto, solo una buona Scuola può garantire un avvenire a giovani, altrimenti disorientati e, soprattutto, molto sfiduciati. 
Riusciremo, tutti insieme, a vincere siffatta scommessa? 



Rosario Pesce

 

 

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